Riforme periodiche e inefficienza persistente del processo civile. Cronache del dèjà vu.

Di Bruno Sassani -

Gli stimoli sono veramente molteplici perché i relatori sono stati tantissimi, e ognuno, dal proprio punto di vista, ha trattato argomenti attuali e controversi sicché ora è veramente arduo riassumere. Ebbene, non riassumerò (non ne sarei capace e non ne vedo l’utilità), piuttosto trarrò alcune considerazioni suggeritemi dall’ampio dibattito.

Ringrazio, anzitutto, Ennio Apicella e l’Avvocatura dello Stato che, per la competenza dei suoi membri, io ritengo essere una controparte privilegiata nella mia vita professionale. Conobbi l’Avvocato distrettuale, Ennio Apicella, proprio trenta anni fa, giungendo ad insegnare a Catanzaro in un periodo di riforme convulse. Partito poi per altri lidi, vi tornai per parlare delle riforme del 1998 (giudice unico, giurisdizionalizzazione del pubblico impiego e molto altro ancora), riforme che avrebbero dovuto chiudere il cantiere iniziato nel 1990 e inteso a dare finalmente efficienza e l’accelerazione al processo civile. Non sfuggirà alla memoria dei più vecchi il periodo convulso dal 1990 al 1995, pervaso di fieri scontri (che videro scendere in campo gli avvocati: qualcuno ricorderà le assemblee dell’Adriano, a Roma: altri tempi). Si ebbero una riforma e la sua controriforma, che a sua volta fu intesa come soluzione definitiva all’inefficienza del processo civile.

Si constatava allora che il processo civile era lento e inefficiente. La legge delega e la Relazione che l’accompagna, oggi, ci riportano a questo: esse partono da un punto preciso, ossia la necessità della riforma per un processo che è (ancora?) troppo lento ed inefficiente.

Soffermiamoci un momento su cosa è accaduto.

Se si guarda alle riforme legislative – l’ha già detto Paolo Sordi – constatiamo che vi è un solo episodio di successo finora, ed è il processo del lavoro, che oggi compie esattamente cinquant’anni. Perché questo processo ha avuto successo? La risposta è da individuarsi in una serie di fattori che non si sono più ripetuti e che, isolatamente presi, hanno portato alla sua mitizzazione. Fattori quali la partenza con ruoli a zero, la creazione di un corpo di giudici specializzati, non utilizzati e non utilizzabili per altri compiti. E, ancora, le attribuzioni a sezioni dedicate, lo stanziamento di fondi ad hoc, la predisposizione di Cancellerie ad hoc. Infine, vi fu una forte caratterizzazione tipologica delle controversie che rese il corpo dei magistrati – entrati con entusiasmo nelle preture del lavoro – l’élite della magistratura stessa, accomunati dall’intento di raggiungere risultati voluti da un programma sociale. Quando, tuttavia, questi ideali di accelerazione, concentrazione, immediatezza e centralità del diritto del lavoro verranno meno si assisterà anche alla confluenza del processo del lavoro nel flusso generale.

Nel 1990 si pensa di recuperare le parole d’ordine utilizzate nel processo del lavoro per adattarle ad un rito generale, al procedimento di cognizione ordinaria: le parole d’ordine sono concentrazione ed oralità. Alla luce del decreto legislativo n. 149/2022 oggi possiamo amaramente concludere che l’oralità è diventata una sorta di peccato capitale, distrutta prima dal Covid e poi, ancor di più, dalla Riforma Cartabia. Possiamo paradossalmente dire che l’unico progresso, come sostenuto dal Presidente Bravin, ce lo ha portato lo stato d’emergenza provocato dalla pandemia che ci ha restituito qualcosa in termini di efficienza.

Il dott. Scalera ha bene illustrato la pretesa della riforma Cartabia di introdurre altri strumenti. Si potrebbe, dunque, pensare che vi sia, ad oggi, un’accelerazione dei meccanismi per le riscossioni dei crediti litigiosi, che, purtuttavia, vennero introdotti già nel 1990 dal contesto riformatorio delle ordinanze anticipatorie; all’epoca, le ordinanze 186-bis, 186-ter, 186-quater vennero presentate come risolutive. Mi capita di ricordare continuamente uno studio di Edoardo Ricci, eccellente processualista, uscito sulla Rivista di diritto processuale: l’articolo focalizzava l’attenzione sull’importanza storica dell’ordinanza dell’art. 186-quater (battezzata poi ordinanza post-istruttoria) spiegando che, in essa doveva vedersi finalmente la leva dell’accelerazione dei processi. Questa ordinanza è rimasta pressoché lettera morta e la lentezza della realtà processuale è rimasta invariata nei decenni. Ma il destino dell’art. 186-quater è stato condiviso dagli artt. 186-bis e 186-ter. Oggi però raggiungiamo – con il sopravvenire delle due nuove ordinanze degli artt. 183-ter e 183-quater – il numero di cinque ordinanze decisorie! Situazione surreale tenuto conto della (non)applicazione nei decenni delle tre ordinanze preesistenti e della ragionevole prognosi di scarsa applicazione delle due nuove.

La verità è che il problema della durata del processo non risiede nelle tecniche adottate; il problema è altrove.

Il problema sta soprattutto nei tempi morti del processo, tempi morti generati da problemi organizzativi, che evidentemente stentano a trovare adeguata soluzione. Si può parlare a lungo dell’Ufficio del processo, ma se in esso si vede (in prospettiva) un fattore di razionalizzazione accelerazione è lecito chiedersi perché non lo si sia allora inserito nel sistema, puntando su di esso senza riscrivere il codice di procedura civile.

Dovendo approntare in fretta e furia la nona edizione dei miei Lineamenti del processo civile italiano, ho avuto modo di rendermi conto da vicino di come gli interventi legislativi si sono inseriti nel corpo del codice. In materia esecutiva, e propriamente sulla vendita forzata e sulla delega delle operazioni di vendita, si è operato con quelle che chiamerei “norme sceneggiature”. In particolare, si riscontrano un paio di articoli – l’art. 534-bis e l’art. 534-ter – che occupano, da soli, sette pagine del codice che ho avanti; si tratta di articoli ambiziosi che vogliono tratteggiare integralmente l’attività degli organi contemplando ad un tempo norme di principio, disposizioni tecniche di realizzazione pratica e norme regolamentari. Articoli che inglobano disposizioni di attuazione e lo fanno con lo spirito e il linguaggio delle circolari ministeriali.

Al di là di queste notazioni (che involgono su un piano generale il degrado progressivo della tecnica normativa), il problema pratico più grave è oggi posto dalla infausta riscrittura della fase di introduzione della causa. Riscrittura operata sulla falsariga della fase introduttiva del defunto processo societario, ma illogicamente privo dei contrappesi che lo caratterizzavano; il nuovo sistema nasce così sotto l’infausta prospettiva di un allungamento dei tempi, dell’aumentato rischio del ritorno indietro della causa e, in generale, di una macchinosità degna di miglior causa. Si può concordare che il sistema che ruotava intorno all’art. 183 non fosse il migliore dei mondi possibili, e tuttavia esso aveva raggiunto quantomeno un equilibrio interpretativo che, faticosamente attinto negli anni, permetteva almeno agli avvocati di organizzare ordinatamente i propri passi.

A chi di voi sembra che il nuovo meccanismo abbia una ragione intrinseca rispetto al vecchio meccanismo? Sebbene non potesse definirsi un capolavoro giuridico-processuale, dopo 10-15 anni di incertezze e qualche intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, dai primi anni duemila si è stati ormai in grado di gestire la fattispecie dell’articolo 183: le movenze degli avvocati muovono su precise certezze. Adesso si ricomincia da capo, e lo si fa con una prima udienza proiettata molto in avanti.

Ma, si dice, c’è il rito semplificato. Davvero? Sono convinto che nove riti su dieci introdotti come semplificati non funzioneranno perché verranno riconvertiti. Rispetto, infatti, all’art. 702-bis c.p.c. che prospettava dei motivi di inammissibilità, altrettanto non può dirsi per il rito semplificato. Si torna ad una scelta del tutto discrezionale del giudice, con la possibilità che il rito venga convertito e ci si ritrovi con termini nuovi proiettati svariati mesi in avanti. L’intero assetto favorisce il rallentamento. Non accelererà nulla perché ove volesse farsi un’istruttoria, così come prospettata dal semplificato, si necessiterà dello stesso tempo previsto per l’istruttoria del giudizio ordinario. Si ricomincia daccapo e occorreranno anni e sentenze della Cassazione, per comprendere appieno e risolvere i problemi applicativi della nuova disciplina. Qualche aiuto alla soluzione delle questioni di diritto che si porranno potrà certo venire dall’art. 363-bis (i primi quesiti inerenti all’articolo 363-bis, arrivati al primo Presidente della Corte di cassazione, riguardano già i problemi dell’applicazione transitoria della legge.), ma non c’è da farsi troppe illusioni: difatti la maggioranza dei problemi non si pongono nel momento in cui sorge la questione, ma sorgono in momenti successivi, e l’investitura della Corte secondo le modalità ordinarie resterà probabilmente il metodo fisiologico per trovare un minimo di certezza alle inevitabili domande.

Tutto questo sul presupposto che, nel frattempo, non sia intervenuta qualche nuova riforma. Cosa, però, molto probabile se si considera la sorte delle riforme succedutesi dal 1990 in poi e l’accavallamento degli interventi legislativi sul codice di procedura. Si pensi al decreto legislativo n. 5 del 2003 dedicato al processo societario: si voleva che costituisse un grande passo in avanti, ma nel giro di sei anni venne seccamente abrogato. Ambedue gli interventi legislativi vennero presentati come scelte razionali e (se non definitive) quantomeno stabili: la prima scelta caratterizzata dalla necessità di razionalizzare il contenzioso societario; la seconda scelta, dopo sei anni, per abrogare l’intervento poco prima attuato.

L’abrogazione era contenuta nella legge n. 69 del 2009 che seguiva un periodo convulso di riforme settoriali (processo esecutivo, a più riprese, nel biennio 2005/2006; giudizio di cassazione; arbitrato) e voleva segnare un progresso rispetto al processo emerso dal plesso di riforme 1990/1995. Ma (e taccio di una miriade di interventi minori avutisi nel frattempo) la macchina della riforma restava in moto: legge sulla mediazione nel 2010, provvedimenti di c.d. “degiurisdizionalizzazione” nel 2014 (occuparono molteplici titoli dei giornali le buffe norme introdotte per convertire il processo civile in arbitrato: articolo 183-bis. Tutti interventi inesistenti nella realtà processuale).

Nel 2012 prende nuovo slancio la guerra alle impugnazioni. Gli articoli 348-bis, 348-ter e 348-quater del codice di procedura civile avrebbero dovuto tagliare gli appelli; all’applicazione rappresentarono, invece, un fallimento. Ora la disciplina è stata riscritta con l’eliminato tutto il meccanismo barocco che ha portato a dispute inani in cassazione sull’assetto delle impugnazioni contro l’ordinanza di inammissibilità.

Il tormentato rapporto con la nostra Corte di cassazione, in effetti, costituisce un ulteriore e serio problema. Il decreto legislativo n. 40 del 2006 pretendeva di fissare la nuova Cassazione, ma già nel 2009, a furor di popolo e con la prima controriforma del decreto, verrà eliminato il cuore di quell’intervento: il quesito di diritto, ucciso dalla assurda interpretazione datane dalla Corte. Nel 2012 vien modificato a fondo l’articolo 360, n. 5, che fino a quel momento aveva rappresentato un pilastro della ricorribilità per cassazione garantendo un ragionevole controllo della motivazione della sentenza, cioè della correttezza della decisione. Nel 2016 si cancella la pubblica udienza: da quel momento la grande massa dei processi in cassazione si svolgerà praticamente in camera di consiglio, senza possibilità di interlocuzione fisica dell’avvocato (la fine dell’oralità sancita ora dall’art. 127-ter viene anticipata ed attuata per il giudizio di legittimità). Un ulteriore intervento si ha con la creazione di una nuova sezione, la Sesta, che dovrebbe smistare i ricorsi avviando a morte repentina quelli inammissibili o palesemente infondati e così costituire il vero filtro del giudizio. Nel 2022, però, il decreto legislativo n. 149 /2022 cancella la Sesta a favore del meccanismo dell’art. 380-bis.1 c.p.c., creando una sorta di rito monitorio in cassazione: un giudice monocratico dirà se il ricorso è manifestamente inammissibile o manifestamente infondato e onererà l’avvocato di ottenere una nuova, distinta procura se vuol procedere maneggiando l’arma della prospettiva di condanne pecuniarie molto, molto punitive. Si aggiunge, a tutto quanto sopra rappresentato, la produzione sterminata di sentenze spesso accompagnata a conflitti interni anche alla Corte di cassazione. Il quadro è quello, quindi, di un cantiere eterno.

Senza dimenticare, poi, le leggi satelliti al codice di procedura. Il decreto legislativo n. 28 del 2010, avente ad oggetto la mediazione e, già, modificato più volte. Soprattutto si pensi al vero codice satellite che rappresenta la riunione dei riti speciali, operati in seguito al decreto legislativo 150 del 2011, e che, permettetemi di fare una riflessione, poneva al centro un insieme di procedimenti gestiti con il sommario di cognizione. Tale scelta era funzionale a quel tipo di procedimenti, soprattutto perché vietava al giudice la conversione del rito, vero dramma del sommario di cognizione. Per mia scelta professionale, ad un certo momento ho deciso di non scegliere più il sommario di cognizione (dove era facoltativo) perché l’unico risultato che si otteneva era l’allungamento dei tempi. Oggi il rito sommario di cognizione è sostituito da un rito, il c.d. semplificato, che non c’entra nulla con i procedimenti speciali del d. lgs. n. 150/2011, procedimenti caratterizzati da quel tipo di istruttoria deformalizzata che elimina tutti gli atti non indispensabili al contraddittorio e che permettevano in tempi decenti, seppur non sempre rapidi, una decisione. Ci si chiede allora come sia utile applicare ai procedimenti ex art. 702-bis c.p.c., l’attuale rito semplificato. Praticamente si è riportato nell’alveo del lento filone delle cause, tutto sommato ordinarie, anche quei procedimenti.

Di recente, ho proposto una tesi di dottorato sulla velocizzazione del processo civile così come vista e rappresentata dagli organi di informazione; organi d’informazione che periodicamente danno l’annuncio della definitiva razionalizzazione ed accelerazione della procedura a favore dei cittadini. La dissertazione, peraltro, non dovrebbe tener conto soltanto degli entusiasmi presenti nei titoli dei giornali succedutesi dal 1990, ma anche degli addetti ai lavori le cui prese di posizione non sono state da meno. Lettura molto interessante, visto che si torna sempre e periodicamente daccapo con lo stesso problema! Segno che molte delle riforme hanno avuto un effetto solo propagandistico: quando si ritiene di portare efficienza legiferando sul rito, in realtà si riesce soltanto a moltiplicare l’inefficienza. Il problema vero, lo ripeto, è quello dei tempi morti: le procedure che oggi durano di più sono i giudizi innanzi alle Corti d’appello. L’interrogativo riguarda quali attività processuali ci saranno mai da compiere in tali giudizi, normalmente sprovvisti di fase istruttoria e comunque già instradati sui binari segnati dalla sentenza appellata. La risposta è, ovviamente, che non ci sono attività di sorta e che il tempo scorre segnato dalla inattività con il solo imperativo di attendere (recente esperienza professionale, vissuta in questi giorni. La mia controparte a inizio 2022 propone appello avverso una sentenza; la Corte d’appello di Roma pochi giorni fa ne sospende l’efficacia esecutiva: è intercorso quasi un anno e mezzo. Dopodiché, rigettate tutte le istanze istruttorie proposte dall’appellante, la causa viene dichiarata matura per la decisione; l’udienza per la decisione ex art. 281-sexies, tuttavia, viene fissata al 12 maggio 2025. A che pro riscrivere le regole di procedura se poi la realtà è quella della stasi comunque?).  Non resta che convenire con Salvatore Satta allorquando scrive che “tutti i riti sono buoni” e che nessun legislatore ha mai pensato di scrivere un procedimento “per favorire la mora dei giudizi”.

Ciò di cui stiamo parlando oggi è soltanto apparentemente l’ultimo capitolo di una storia trentennale di tentativi di accelerare e di razionalizzare il procedimento, i cui risultati tuttavia non sono stati raggiunti. La facoltà del governo di modificare fino al 31 dicembre 2024 queste norme rende concreta la possibilità che l’anno prossimo potremmo ritrovarci e parlare delle modifiche intervenute. Nel processo civile, l’ultima è sempre la penultima.

Mi auguro che fra trent’anni, qui con Ennio Apicella, potremmo continuare questo discorso iniziato giust’appunto trent’anni fa, proprio nel cuore della battaglia.  Consentitemi di aggiungere una cosa soltanto e di chiudere su questo. Trent’anni fa – lo ho ricordato poco fa – vi fu una guerra feroce tra avvocati e giudici sul senso, sul valore e sulle prospettive della legge n. 353 del 1990. Oggi la riforma c.d. Cartabia è passata nell’indifferenza totale: non piace agli avvocati, non piace ai giudici, tanto meno ai cancellieri e, last but not least, non piace alla maggioranza dei miei colleghi accademici che si occupano del c.d. diritto processuale. Tempora mutantur.

Probabilmente qualcosa, nel triste mondo delle aule di giustizia (ma, visto il declino dell’udienza, possiamo usare ancora questa espressione spaziale?) cambierà ma, se cambierà, interesserà l’ufficio del giudice o qualche altro aspetto organizzativo. Continuo allora a chiedermi perché, invece, non si è puntato solo sugli aspetti organizzativi, perché non si è attuata la proposta della Commissione Luiso di riformare poche e qualificate norme senza al contrario procedere ad una sistematica revisione di interi settori, senza tornare quindi a rimodificare le regole del gioco e, come diceva la Presidente prima, a sostituire il bisturi nella mano del chirurgo mentre sta operando.

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*Intervento conclusivo del Convegno organizzato dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro, 23 giugno 2023, pubblicato in Riforme legislative ed efficienza del processo, Rubettino ed. 2024.