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Seminario sugli ottant’anni del codice di procedura civile
Di Aniello Merone -
Il Seminario sugli ottant’anni del codice di procedura civile, svoltosi presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tor Vergata il 24 novembre 2022, tributa un ampio e articolato omaggio all’opera di codificazione, riunendo in un’affollata sala molti studiosi, giovani e meno giovani, sollecitati dalla ricorrenza ottuagenaria.
Nell’introduzione offerta da Bruno Sassani vengono ricordati il clangore con cui il codice fu accolto sin dalla promulgazione nel 1940 e la dissonante e repentina modifica del 1950, che intervenne sui punti, ora come allora, nodali dell’introduzione della causa e del regime delle preclusioni. Nel rievocare la capacità di Calamandrei di garantire nella trama dell’opera la perdurante tutela di fondamentali principi di matrice chiovendiana – si allude al principio del dispositivo, al contraddittorio, al rapporto con il diritto sostanziale – si rileva altresì come le continue e successive modifiche, incluse quelle emergenziali e pandemiche, abbiano oramai reso arduo intercettare gli originali connotati dell’opera ispirata ad oralità, concentrazione e immediatezza. Il progressivo allontanamento del giudice dal ruolo di “angelo custode della controversia esercitato attraverso la sua solerte presenza”, la perdurante impossibilità per gli avvocati di presenziare alle udienze ed il moltiplicarsi di filtri di ammissibilità (che debordano in prognosi di fondatezza) hanno sensibilmente modificato la sagoma di un’opera che, oltretutto, si è rassegnata ad accogliere interventi d’integrazione che si manifestano incuranti financo della sua aritmetica e toponomastica.
Gli fa eco Romano Vaccarella, a cui è affidata la presidenza, che muove dall’apologo al Commentario di Satta per ricostruire l’oscillante diagramma delle fortune del codice dall’età della sua prima diffusione alle successive riforme, non potendo sottrarsi alla puntualizzazione del vistoso, e non di rado poco felice, sedimentarsi di recenti sovrastrutture che ne hanno reso irriconoscibili i connotati nel tentativo di ammaliare le istituzioni europee.
Augusto Chizzini distribuisce la prima relazione attraverso tre movimenti volti ad illustrare (i) come la codificazione del 1942 si inserisce nella tradizione delle codificazioni processuali, (ii) quali sono le correnti ideologiche che l’hanno ispirata e quanto dei principi che la caratterizzano abbiano trovato riscontro in seno alla Costituzione e, infine, (iii) se il disegno del codice sia riuscito ad adeguarsi alla società nel suo inevitabile percorso di cambiamento.
Come noto sin dall’Ordonnance civile del 1667 lo Stato si è impossessato della procedura eliminando la possibilità per l’autonomia delle parti di definire l’andamento del processo e in tale prospettiva il codice del 1942 si inserisce in un alveo stabilmente tracciato ed in cui il significato delle disposizioni normative, nonostante la tendenza delle norme processuali alla formale permanenza e apparente continuità, si adegua e cambia in funzione della coloritura generale del sistema. Ciò che il codice esprime con chiarezza è la non indifferenza dello Stato alla soluzione delle liti che (per quanto riferibili a posizioni giuridiche soggettive che esistono prima e al di fuori) attraverso il processo debbono pervenire a soluzioni che siano conformi a quelle regola che lo Stato detta per regolare l’agire dei soggetti nell’ordinamento.
Questo tema ha assunto da un punto di vista sistematico una duplice prospettazione attraverso, da un lato, la teoria dell’azione e l’approdo ai diritti soggettivi pubblici (nello specifico, al diritto ad una decisione sul merito) e, dall’altro lato, la teoria del rapporto giuridico processuale che (seppur nella pluralità delle sue declinazioni) definisce in termini giuridici il rapporto che lega le parti al giudice al fine della concreta realizzazione del diritto alla tutela. In tal modo, la tematica del processo viene ad essere pienamente definita in termini giuridici, abbandonando l’idea del mero procedimento, della sequenza di atti, in favore di un insieme di relazioni disciplinate dal diritto. In tale prospettiva, anche i presupposti processuali, che nella teoria di Bülow individuano gli elementi costitutivi del rapporto processuale e nacquero come uno strumento di tutela nei confronti del convenuto per le gravi conseguenze che potevano derivare dalla mancata costituzione in giudizio, diventano nelle codificazione del ’42 (insieme ad altre codificazioni moderne) i criteri di valutazione per ottenere una decisione sul merito; criteri da esaminare in combinato disposto con tutti quegli strumenti processuali, riconducibili allo spirito di collaborazione tra le parti e il giudice, volti ad evitare che le regole volte a disciplinare il rito impediscano di addivenire alla decisione sul merito, a cui l’ordinamento guarda come soluzione definitiva della contrapposizione espressa dalla lite.
Sulla scorta di tale percorso il codice del 1942 ha sostanzialmente recepito tutti i principi fondamentali che hanno caratterizzato la scienza processuale moderna (principio della domanda, della pubblicità dell’udienza, del giudice naturale precostituito per legge, etc…), a loro volta ulteriormente accolti e posti a base della Carta costituzionale, confermando tanto la loro capacità di sintetizzare la conclusione di un percorso di riflessione dottrinale, quanto la loro perdurante validità e valenza.
In conclusione, il quesito legato alla capacità del codice di adeguarsi alla società nel suo percorso di cambiamento è affidato da Chizzini ad una suggestiva allegoria pittorica, definendo il codice del 1942 come un’opera della “grande maniera”, da cui traspare la capacità di aver appreso la lezione dei grandi Maestri, ma a cui però manca la capacità di analizzare il presente con piglio innovativo e programmare il futuro alla luce dei cambiamenti in essere; un’opera che non nasce vecchia ma certamente matura e che concentra, molto (se non troppo) della propria attenzione su temi che avrebbero di lì a poco perso centralità.
La seconda relazione, affidata a Massimo Nardozza, si concentra sul tema della valutazione della prova e del libero convincimento del giudice, si pone in stretta continuità con l’idea che il codice del 1942 rappresenti l’epilogo di un grande movimento di riformismo processuale che caratterizza il primo Novecento.
Muovendo dal dialogo instauratosi all’epoca del primo conflitto mondiale tra Calamandrei e l’opera di Adolf Wach (Questioni fondamentali e riforma del processo civile), si ricostruisce l’ampio dibattito sulle modalità di raggiungimento della verità nell’alternarsi di due distinte posizioni. Da un lato, la chiara affermazione dell’idea che il fine del processo civile debba essere individuata nell’accertamento della verità dei fatti costituenti il rapporto di diritto controverso ― così da ripristinare la verità materiale in luogo di una verità processuale meramente formale ― e, pertanto, la valutazione della prova e i poteri istruttori del giudice debbano assecondare un ampio ricorso ai poteri d’ufficio, stante la inidoneità del principio dispositivo a garantire il raggiungimento della verità. Dall’altro lato, il dissenso ad un’eccessiva pubblicizzazione del processo civile e all’affermazione di una sovra-ordinazione del nucleo forte dello Stato che ben avrebbe potuto condizionare (e controllare) l’unità e la continuità della funzione giudiziaria; in tale prospettiva, si respingeva l’idea della “parte come mezzo di prova” ovvero mezzo per ricercare la verità, ritenendo non accettabile l’imposizione di misure coattive che la costringessero alla comparizione forzata ovvero una declinazione dell’obbligo di verità che consentisse di trasformarne le deduzioni difensive da mezzo di delimitazione dei fatti rilevanti a strumenti di prova di quei medesimi fatti.
Anche il principio del libero convincimento del giudice fu oggetto in quegli anni di pericolosi fraintendimenti sotto il profilo interpretativo, prestandosi a strumentalizzazioni politico dottrinarie che avevano favorito il proliferare di una concezione autoritaria del processo, quale espressione di una sua inclinazione pubblicistica (ben riassunta dalla famosa frase di Carnelutti secondo cui l’interesse delle parti è solo un mezzo attraverso il quale si realizza lo scopo del processo), e delle facoltà del giudice istruttore nella individuazione dei fatti rilevanti, che si dilatavano fino a renderlo arbitro della controversia. L’accentuata libertà del giudice, presente nei progetti Redenti e Solmi, guarda ai criteri di valutazione della prova non quali limiti ai poteri del giudice ma come strumenti rimessi al suo prudente apprezzamento, mentre nella visione accolta dal codice del 1942, i criteri attraverso cui si conduce l’istruzione probatoria rappresentano di per sé un valore, in quanto raffinando il materiale su cui il giudice dovrà pronunciarsi delimitano l’ambito della discrezionalità. In questo senso, le regole sull’acquisizione e valutazione delle prove non rappresentano un pleonastico formalismo di cui si servono strumentalmente le parti, ma aderiscono ad una finalità etica volta a salvaguardare, nell’interesse dei contendenti, l’oggetto del processo. Ne consegue che, nella prospettiva della codificazione pre-repubblicana, la verità non sembra rappresentare il fine del processo, poiché la possibilità che il giudice possa raggiungere un accertamento sul fatto controverso dipende dalla ricostruzione e valutazione critica che il medesimo compie sugli elementi che gli vengono offerti dalle parti, che per esigenze difensive ben potranno non essere tutti ovvero essere ultronei rispetto alla realtà della vicenda controversa.
Antonio Carratta sofferma la propria attenzione sulla tutela sommaria offerta dal libro quarto, per rimarcare, oltre alla già evidenziata discrasia tra i principi che lo ispirano e le regole che ne danno attuazione, la valutazione negativa che accompagnò sin da principio questa parte del Codice, che tradisce più di altre l’inattendibilità dei suoi connotati chiovendiani: a riprova si osserva come, già nel 1946, Virgilio Andrioli (che del Maestro piemontese era allievo) descriveva il libro quarto come “il più manchevole” e da “ricomporre dalle fondamenta”.
Il precedente codice del 1865 conosceva un rito sommario cui ricorrere in via di eccezione, in aggiunta al rito formale e solenne che si utilizzava davanti ai tribunali e alle corti d’appello, ma esso in concreto risultava comunque caratterizzato da una cognizione piena ed esauriente e con udienze a «istruttoria aperta», e con la riforma del 1901 finì per essere «consacrato legalmente come ordinario».
I processi o procedimenti caratterizzati da una sommarietà sostanziale (summaria cognitio) erano, invece, i procedimenti in camera di consiglio e le misure cautelari, disciplinati nel libro III del c.p.c. del 1865 dedicato ai «vari procedimenti speciali».
È solo con il codice del 1942 che il legislatore manifesta la propria intenzione di riferire l’aggettivo «sommario» alla cognizione, ma la lezione chiovendina ne esce ampiamente rimaneggiata, ove si osservi che: a) sotto l’intitolazione “Dei procedimenti sommari”, finiscono non soltanto i c.d. accertamenti con prevalente funzione esecutiva, ma anche i procedimenti cautelari e possessori; b) conseguentemente, il loro scopo comune cessa di essere l’anticipazione dell’esecuzione forzata rispetto alla definitività dell’accertamento (quella del giudicato) ― giustificata ora dalla natura «speciale» degli interessi tutelati ora dalla ricorrenza di determinati presupposti che rendano altamente probabile la fondatezza della pretesa attorea; c) risultano comunque assenti nel codice procedimenti sommari (non cautelari) a tutela di diritti soggettivi a contenuto non patrimoniale, nonché la generalizzazione di forme anticipatorie di tutela (ad es., la condanna con riserva).
Analoghe considerazioni vengono svolte rispetto al sistema cautelare e alla tutela sommaria camerale emergenti dal codice del 1942. Nelle prime è agevole rintracciare l’impostazione chiovendiana sia nell’armamentario delle misure cautelari tipiche, sia nell’introduzione di un potere cautelare generale e atipico dell’art. 700, ma emergono rilevanti divergenze, ove si rivolga l’attenzione al ruolo del giudice nella pronuncia dei provvedimenti cautelari ovvero nell’individuazione dei presupposti per la pronuncia dei provvedimenti cautelari atipici. Nelle seconde, la relazione fra procedimenti in camera di consiglio e giurisdizione contenziosa» ― laddove un legame esclusivo con la giurisdizione volontaria rappresentava per Chiovenda «un volgare errore» ― avrebbe dovuto assicurare anche in sede camerale il rispetto del contraddittorio e una supplenza del procedimento ordinario meramente transitoria, in una prima fase, dovendo comunque successivamente riprendere le forme proprie del procedimento contenzioso, che sole avrebbero consentito di ritenere che decreto e sentenza potessero acquisire forza di giudicato.
Tuttavia, pur alla luce di queste non sottovalutabili imperfezioni, Carratta sottolinea come dall’analisi del codice del 1942 emerga una piena consapevolezza dell’importanza che riveste in qualsiasi sistema processuale la tutela sommaria e dell’attenzione rivolta all’idea, centrale nel sistema chiovendiano, che la tutela sommaria concorra in maniera decisiva all’effettività della tutela giurisdizionale, sia rispetto alla natura degli interessi tutelati che alle esigenze di economia processuale.
Infine Andrea Panzarola ripercorre le vicende che hanno caratterizzato il tragitto della Cassazione, ricostruito come sistema complesso risultante dalla combinazione di due istituti che si integrano a vicenda, uno dei quali appartiene all’ordinamento giudiziario (la Corte di cassazione, creazione della Rivoluzione francese), mentre l’altro aderisce al diritto processuale civile e al sistema dei mezzi di impugnazione (il “ricorso” in Cassazione, strumento processuale con radici risalenti nel tempo).
Nel disciplinare l’istituto il codice del 1942 fu senz’altro condizionato dal r.d. 24 marzo 1923, n. 601 che procedette alla soppressione delle Cassazioni regionali torinese, fiorentina, napoletana e palermitana ― corti che, pur avendo in comune gli attributi essenziali dell’istituto (rescindente per violazione di legge), presentavano tra di loro marcate differenze, a seconda del modello francese di riferimento ―, elevando la Cassazione di Roma (istituita con legge 12 dicembre 1875, n. 2837) a Cassazione unica del Regno. Sebbene, la raggiunta unificazione fu letta da molti come un riflesso dell’esaltazione dell’autorità dello Stato ricercata dal regime fascista, in verità essa fu l’epilogo di una linea di tendenza dettata già nel primo decennio dell’unificazione e che non venne realizzata prima a causa della «debolezza politica dei governi in epoca pre-fascista» (unita alla probabile volontà politica, come ci ricorda Nicola Picardi di adottare un provvedimento ad personam nei confronti di Mortara, per rimuoverlo dall’incarico di primo presidente della Cassazione romana, in quanto reo di aver ostacolato l’operato del governo introducendo coraggiosamente il sindacato giurisdizionale delle sezioni unite della Cassazione romana sui decreti-legge; cfr., N. Picardi, Lodovico Mortara nel centenario del suo giuramento in Cassazione, in Riv. dir. proc., 2003, p. 354 ss., p. 369 ss).
Centrale è il richiamo della funzione nomofilattica che si innerva sulla formulazione del nuovo art. 65 ord. giud., che, a differenza delle precedenti disposizioni dei regi decreti 2786/1923, e 2626/1865, riferibili al solo mantenimento della «esatta osservanza della legge», offre novello richiamo alla «uniforme interpretazione della legge». Allo «scopo negativo di nomofilachia» con il quale la Suprema Corte riafferma, di fronte al giudice, l’autorità della legge, eliminando la pronunzia che egli abbia assunto eccedendo i limiti del suo potere, si giustappone lo «scopo positivo di unificazione giurisprudenziale», sin da principio prevalente, ma estesosi negli anni a denotare in via pressoché esclusiva la funzione di uniformazione delle interpretazioni giudiziarie.
Il punto di raccordo fra interesse pubblico ed interesse privato è, nella lezione calamandreiana, rappresentato dalla norma (costituzionale, ad avviso del Maestro fiorentino, in quanto regolatrice dei rapporti tra funzione giurisdizionale e funzione legislativa) diretta al giudice di giudicare secundumius. Dalla sua violazione discende il diritto potestativo individuale all’annullamento della sentenza viziata; dalla uniformità della giurisprudenza consegue l’assicurazione della eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge così come la certezza del diritto e la unità del diritto oggettivo.
Molte le novità introdotte dalla nuova disciplina del ricorso in Cassazione, che trovano espressione non soltanto nella tendenza generale del Codice a rafforzare l’autorità del giudice e a rendere più sollecito il corso del procedimento anche in fase di impugnazione, ma anche in un opera di riordino e semplificazione che trasforma il ricorso per cassazione in una impugnazione ordinaria, abbandonando definitivamente l’idea calamandreiana dell’azione di impugnativa, “autonoma” dalla azione di merito e insieme capace di dare vita ad un “nuovo” processo.
Dagli otto motivi ricchi di sfaccettature e sovrapposizioni dell’art. 517 del codice del 1865 si perviene ai 5 dell’attuale art. 360 dove ― a dispetto della modifica meramente formale del n. 3, e della sintesi operata con la generica espressione di nullità del n. 4 ― è l’intervento sul n. 5 ad aver attirato maggiormente l’attenzione, tanto che durante i lavori preparatori si era manifestata un’autorevole tendenza a eliminare del tutto dal giudizio di cassazione il controllo di logicità (difetto) della motivazione. Esercitato dalla Suprema Corte pur in assenza di una norma che espressamente lo consentisse e dilatato dalla pratica giudiziaria in maniera esorbitante, è stato infine mantenuto dal nuovo codice, sebbene ristretto nei limiti precisi di un “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio del quale le parti avevano discusso”. Delle (molte) altre modifiche illustrate l’enfasi è posta su: la previsione dell’art. 371 c.p.c. dedicata al ricorso incidentale, che riflette l’emersione nella pratica del ricorso condizionato, escogitato per ovviare alla mancanza nella legge processuale del 1865 di un ricorso incidentale analogo all’appello; l’ampliamento delle ipotesi di cassazione senza rinvio per motivi processuali, ex art. 382, co. 3, c.p.c. che consacra la prassi, diffusa nel vigore dell’art. 544, co. 3, c.p.c. 1865, di consentire – per sfuggire ai tempi lunghi imposti dal giudizio di rinvio – la cassazione senza rinvio in riferimento alla carenza di vari requisiti di ammissibilità del giudizio di merito; l’introduzione, ex art. 384, co. 1, quanto ai rapporti tra rescindente e rescissorio in ipotesi di errores in iudicando, di un vincolo immediato a carico del giudice di rinvio rispetto al principio di diritto enunciato dalla Cassazione ― in precedenza previsto solo relativamente al “punto di diritto” sul quale la Corte aveva pronunciato “a sezioni riunite” in caso di secondo annullamento per gli stessi motivi ― e che le ha portato in dote una porzione del rescissorio. Per Panzarola, tutti questi elementi spiegano perché il concreto funzionamento della Corte di cassazione abbia progressivamente assecondato il ruolo della prassi, distaccandosi – in maniera ora più, ora meno marcata – dalla lettera della legge e sviluppandosi indipendentemente dai suoi canoni originari e, talvolta, persino in opposizione ad essi. Non per caso, già Calamandrei parlava di un fenomeno di «creazione consuetudinaria di un istituto giudiziario».
Le conclusioni, affidate ad Antonio Briguglio, riavvolgono il filo delle relazioni in un brillante susseguirsi di figure e immagine mutuate dalla lirica e la storia dell’arte, aprendo la strada ad un partecipato dibattito.