Successione nel credito litigioso in pendenza dell’azione revocatoria

Di Luigi De Propris -

Sommario: 1. Lo stato dell’arte su art. 111 c.p.c., impugnative negoziali e azione revocatoria – 2. Iniziale inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c. in ipotesi di cessione del credito legittimante alla revocatoria – 3. Consolidamento del principio per cui l’art. 111 c.p.c. trova applicazione alla revocatoria in ipotesi di cessione del credito “litigioso” – 4. Riflessioni conclusive: art. 111 c.p.c. e struttura dell’obbligazione

1.Lo stato dell’arte su art. 111 c.p.c., impugnative negoziali e azione revocatoria

Dall’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, la dottrina processualista ricerca con affanno il significato dell’espressione “diritto controverso” impiegata dall’art. 111 c.p.c. per individuare e circoscrivere le ipotesi in cui l’istituto possa trovare applicazione. Ciò sulla scia dell’interrogativo, posto da una serie di autorevoli studiosi del processo e del diritto sostanziale già sotto il vigore dei codici del 1865[1], se tale l’istituto trovi o meno applicazione alle azioni di c.d. impugnativa negoziale in ipotesi di trasferimento da parte del convenuto del bene oggetto del contratto impugnato.

Infatti, secondo un autorevole orientamento dottrinale, particolarmente restrittivo e rigoroso, dal momento che l’art. 111 c.p.c. codificherebbe una ipotesi si sostituzione processuale, esso dovrebbe trovare applicazione solo quando il bene trasferito in corso di causa coincida esattamente con il preciso oggetto del giudizio, in modo tale da operare solo quando la parte alienante perda la legittimazione ad agire in conseguenza del trasferimento del diritto: ciò che invece difetterebbe, tendenzialmente, in tutte le azioni di impugnativa negoziale[2]. Altra parte non meno autorevole della dottrina, al contrario, ritiene che l’art. 111 c.p.c. possa trovare applicazione anche a tali ultime azioni, ivi compresa – appunto – l’azione revocatoria[3].

Dal canto suo, la giurisprudenza suole distinguere da tempo immemore: mentre applica l’istituto alle azioni di impugnativa negoziale in senso stretto (annullamento, rescissione, risoluzione, nullità e simulazione), ritiene al contrario che esso risulti inoperante in riferimento alla sola revocatoria in ipotesi di trasferimento lite pendente del bene oggetto del contratto revocando.

Ciò trova una duplice giustificazione secondo l’orientamento giurisprudenziale riferito: in primo luogo, a causa dalla non coincidenza del bene ceduto lite pendente (la proprietà del cespite oggetto dell’atto revocando) con il “diritto controverso” ex art. 111 c.p.c., che invece coincide con il preciso oggetto del giudizio della revocatoria, vale a dire l’inefficacia dell’atto che ne ha operato il trasferimento in pregiudizio dell’attore[4]. In secondo luogo, tale inapplicabilità si spiegherebbe, secondo la giurisprudenza, a causa della mancanza del carattere restitutorio dell’azione revocatoria, la quale lascia impregiudicata la proprietà del cespite in capo all’avente causa, legittimando unicamente l’attore vittorioso a soddisfarsi in via esecutiva su di esso[5].

2.Iniziale inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c. in ipotesi di cessione del credito legittimante alla revocatoria

E’ su tali basi che la Corte di cassazione è arrivata, di recente, ad estendere la massima tralaticia dell’inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c. alla revocatoria anche nell’ipotesi – opposta a quella sin qui considerata – di cessione lite pendente del credito legittimante all’azione[6]: la fattispecie su cui la Corte di cassazione si è trovata in quell’occasione a decidere può essere opportunamente qui riferita, perché ha dato luogo conseguenze del tutto paradossali.

Si trattava di decidere la questione – proposta dai convenuti, già soccombenti in due gradi di giudizio, con altri motivi di ricorso tesi a invalidare per altri versi l’accoglimento della revocatoria – circa l’ammissibilità dell’intervento dispiegato dal cessionario lite ppendente del credito, ai sensi dell’art. 111, comma 3 c.p.c., in grado di appello proposto contro l’originario creditore risultato vittorioso in primo grado.

Ebbene, nella pronuncia citata la Corte di cassazione – che pur rigettava gli altri motivi di ricorso e, dunque, confermava l’accoglimento della domanda – ha ritenuto che l’art. 111 c.p.c. non fosse applicabile all’ipotesi di cessione del credito da parte dell’attore in pendenza di revocatoria, con la conseguenza che l’intervento del cessionario ex art. 111 c.p.c. veniva dichiarato inammissibile.

Non è chi non veda l’insostenibilità (e la paradossalità) degli esiti cui in tal modo si perveniva: la sentenza di accoglimento della revocatoria dichiarava inefficace un atto di disposizione a vantaggio di un soggetto – il dante causa – che, tuttavia, non essendo più creditore per intervenuta cessione non avrebbe più potuto soddisfarsi sul bene. Mentre per il cessionario ed effettivo titolare del credito, in virtù del carattere relativo dell’inefficacia determinata dall’accoglimento della revocatoria e della dichiarata inapplicabilità dell’art. 111, comma 4 c.p.c., sarebbe stata preclusa ogni azione esecutiva sul cespite oggetto dell’atto revocato.

In altri termini, l’atto dispositivo veniva dichiarato inefficace relativamente a un soggetto – il cedente – che non era più titolare del credito, mentre il soggetto che ne era divenuto titolare non avrebbe potuto beneficiare degli effetti della sentenza revocatoria

3. Consolidamento del principio per cui l’art. 111 c.p.c. trova applicazione alla revocatoria in ipotesi di cessione del credito “litigioso”

La paradossalità della conclusione raggiunta ha convinto la Suprema Corte, nell’arco di pochi anni, a ribaltare del tutto l’affermazione dell’inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c. alla revocatoria: prima timidamente, affermando che degli effetti di quest’ultima beneficerebbe anche il cessionario[7]; poi in modo netto con la sentenza Cass. 12 luglio 2023, n. 19865 in commento, che ha proclamato l’opposto principio secondo cui l’art. 111 c.p.c. trova applicazione qualora, in pendenza di revocatoria, venga ceduto il credito legittimante all’azione[8]

Quest’ultimo orientamento merita senz’altro approvazione, venendo incontro in primo luogo all’esigenza di tutela delle parti estranee alla cessione: terzo convenuto e debitore diretto sarebbero infatti ingiustamente pregiudicati se l’attore, cedendo il credito che legittima alla revocatoria e in mancanza dell’applicabilità dell’art. 111 c.p.c., fosse posto nella possibilità di ottenere la chiusura del processo in ragione dell’avvenuta cessione, impedendo ai primi di ottenere una sentenza che li tuteli maggiormente con un rigetto della revocatoria perché altrimenti infondata ed opponibile anche al cessionario.

Ma anche ove non ricorra tale ipotesi e la prima revocatoria possa risultare fondata, la soluzione negativa all’applicazione dell’art. 111 c.p.c. si dimostra pregiudizievole non solo per gli interessi del cedente e del cessionario (costretti a perdere l’investimento di un processo già iniziato), ma anche sicuramente per l’economia processuale in generale e, probabilmente, anche per terzo e debitore, costretti a dover fronteggiare nuovamente lo stesso e identico processo su iniziativa – questa volta – del cessionario.

Ci si augura che il consolidarsi del revirement, oramai conclusosi in materia di cessione del credito da parte dell’attore in pendenza di revocatoria, possa rappresentare occasione per rivedere anche il tradizionale orientamento che continua ad affermare l’inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c. alla revocatoria nell’ipotesi – che può definirsi classica – di trasferimento del cespite oggetto dell’atto revocando da parte del convenuto.

Infatti la giurisprudenza maggioritaria – allorché considera dirimente la mancanza di effetto restitutorio nella revocatoria per escludere l’applicazione dell’art. 111 c.p.c. – sembra confondere la funzionalità dell’istituto in esame – quella cioè di tutelare la controparte estranea alla successione (vale a dire in questo caso l’attore) garantendogli l’effettività della tutela giurisdizionale – con gli effetti dell’azione revocatoria sull’atto dispositivo revocato tra i soggetti. A ben vedere, infatti, la mancanza dell’effetto restitutorio nella revocatoria non rileva nei rapporti tra l’attore (il creditore) e il convenuto (l’accipiens)[9], ma nei soli rapporti interni tra quest’ultimo e il debitore diretto (suo dante causa).

Infatti, l’azione revocatoria ha il solo scopo di legittimare (arg. ex art. 2902 c.c.) l’attore vittorioso ad agire esecutivamente contro il terzo soccombente in revocatoria, che resta proprietario (arg. ex art. 602 c.p.c.) del cespite il cui acquisto è stato revocato . L’assetto “proprietario” del bene oggetto del contratto revocato, dunque, non ha alcun rilievo e incidenza sulla prospettiva dell’efficacia della tutela richiesta dall’attore in revocatoria, che resta quella di un creditore pregiudicato da un atto di disposizione del patrimonio del proprio debitore[10].

4.Riflessioni conclusive: art. 111 c.p.c. e struttura dell’obbligazione

Posta la correttezza dell’orientamento giurisprudenziale che si sta cristallizzando in materia di cessione del credito litigioso in pendenza di un’azione revocatoria, sembra possibile portare la riflessione ad un più alto livello, che si ricollega con la definizione della nozione di “diritto controverso” ai sensi dell’art. 111 c.p.c.

L’evoluzione storica del secolare dibattito sul punto si è andata indirizzando nel senso di disegnare un’entità puramente processuale – per lo più identificata nello specifico oggetto del giudizio (lo Streitgegenstand elaborato dalla dottrina tedesca) – per discernere le fattispecie in cui, non venendo trasferito in corso di giudizio esattamente il «diritto controverso», l’art. 111 c.p.c. non dovesse trovare applicazione. L’esasperazione di tale postulato ha condotto – come si è visto – a risultati disfunzionali e irrazionali, come l’esclusione dell’operatività dell’istituto in esame non solo nelle azioni di impugnativa negoziale (secondo parte della dottrina) e in particolare nella revocatoria (secondo la giurisprudenza), ma anche nelle ipotesi di successione costitutiva[11].

In disparte da simili tendenze, altrove si è tentato di ridefinire la nozione di «diritto controverso» su un terreno decisamente sostanziale, come quel diritto che è “reso” controverso dalla tutela invocata nel processo, in virtù di nessi di dipendenza civilistica[12]

Tale impostazione si rivela particolarmente feconda per interpretare il significato dell’arresto della Corte di cassazione in commento, che ha implicitamente affermato che, in un’azione – come la revocatoria – che costituisce “mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale”, il «diritto controverso» è costituito proprio dal credito legittimante all’azione.

Non può sfuggire infatti che (a meno di non voler disconoscere qualunque pregnanza semantica all’espressione «diritto controverso» ex art. 111, comma 1 c.p.c.) deve supporsi che tra credito e responsabilità patrimoniale – della quale l’azione ex art. 2901 c.c. è “mezzo di conservazione” – sussista una connessione giuridica tanto stringente e strutturale (un nesso di dipendenza civilistica, appunto) da far a ritenere che, nella revocatoria, ciò che in ultima istanza risulta «controverso» sia proprio il credito che ad essa legittima[13].

Se ciò è innegabile, allora non può farsi a meno di identificare quella “connessione” tra credito e responsabilità proprio nella struttura interna dell’obbligazione, la quale – secondo la nota teoria della distinzione tra Schuld e Haftung – costituisce quel vincolo composito che – racchiudendo insieme le diverse componenti del credito, del debito e della responsabilità – permetterebbe di affermare che il credito è il diritto controverso nella revocatoria perché tale azione, in ultima istanza, mira a garantirne la stessa giuridicità e la più intima espressione: vale a dire il potere del creditore di soddisfare il proprio interesse.

La medesima constatazione dovrebbe del resto essere effettuata – ed anche a più forte ragione – in considerazione dell’orientamento, consolidato oramai da circa un ventennio nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui l’art. 111 c.p.c. trova applicazione anche quando, in pendenza di un procedimento di espropriazione forzata, venga ceduto il credito legittimante all’esecuzione[14].

In quest’ultimo caso, anzi, la relazione strutturale tra responsabilità e credito è ancor più evidente, tanto da imporre l’interrogativo se non possa affermarsi un principio generale in virtù del quale, in ogni ipotesi in cui l’ordinamento predispone una tutela per un’obbligazione civile (si pensi anche all’azione surrogatoria), la cessione del credito lite pendente implichi sempre l’applicazione dell’art. 111 c.p.c.

[1]Le variegate posizioni dottrinali al riguardo sono riferite in De Propris, Successione nel diritto controverso, cit., 220 ss., 697 ss.

[2]Tale tesi ha ricevuto la più precisa e consapevole formulazione da parte di Proto Pisani, La trascrizione delle domande giudiziali, Napoli, 1968, 23; ed è stata di recente ribadita da Widmann, La successione a titolo particolare nel diritto controverso, Trento, 2015, 411 s. In senso convergente, tuttavia, si vedano anche De Marini, La successione nel diritto controverso, Roma, 1953; Bigiavi, Risoluzione per inadempimento ed alienazione della cosa litigiosa, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1954, 147 ss. Tendenzialmente – ma non senza eccezioni – gli autori che inquadrano l’istituto in esame come una ipotesi si sostituzione processuale accedono alla teoria c.d. della rilevanza, ritenendo che il trasferimento lite pendente sia appunto rilevante e che la sua incidenza sul processo – per dar luogo all’applicazione dell’art. 111 c.p.c. – debba essere quella di determinare la perdita della “legittimazione ad agire”, a cui l’istituto in commento supplirebbe conferendo al dante causa la legittimazione straordinaria ex art. 111, comma 1, c.p.c.

[3]Per tale impostazione, si veda, di recente, Vaccarella, Trascrizione delle domande giudiziali e successione nel diritto controverso, in GABRIELLI, GAZZONI (diretto da), Trattato della trascrizione, II (La trascrizione delle domande giudiziali), Assago, 2014, 349 ss. Del tutto simmetricamente rispetto a quello più restrittivo, quest’ultimo orientamento estensivo dell’applicazione dell’art. 111 c.p.c. si colloca a valle di una rilettura del meccanismo interno dell’art. 111 c.p.c. ispirata alla irrilevanza del trasferimento lite pendente del diritto controverso: ciò che costituirebbe il motivo per cui il processo – in virtù di una peculiare perpetuatio jurisdictionis – proseguirebbe tra le parti originarie.

[4]In questo senso, si vedano tra le tante Cass. 19 novembre 2014, n. 24655, nonché Cass.  17 novembre 2005, n. 23255, secondo le quali “colui che ha acquistato un bene, oggetto di azione revocatoria (fallimentare, nella specie), dal subacquirente del medesimo bene convenuto in giudizio ai fini della dichiarazione dell’inefficacia del suo acquisto ai sensi dell’art. 2901, ultimo comma, cod. civ., non è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza dichiarativa della predetta inefficacia, atteso che egli non assume la condizione di successore a titolo particolare ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ., bensì quella di ulteriore terzo subacquirente, non avendo ricevuto il diritto controverso – come sarebbe se gli fosse stato ceduto il contratto di  (sub)acquisto – ma l’immobile oggetto dei plurimi negozi avvenuti in successione”.

[5]Così, tra le tante, Cass., 11 settembre 1997, n. 8962, in Fallimento, 1998, 787, secondo la quale “il vittorioso esperimento di un’azione revocatoria (ordinaria o) fallimentare non è idoneo a determinare alcun effetto restitutorio rispetto al patrimonio del disponente, né tanto meno alcun effetto direttamente traslativo in favore del creditore, comportando solamente la declaratoria di inefficacia (relativa) dell’atto rispetto al creditore che agisce in giudizio, e rendendo, conseguentemente, il bene trasferito assoggettabile ad azioni esecutive, senza in alcun modo caducare, ad  ogni altro effetto, l’avvenuto trasferimento in capo all’acquirente”

[6]Si tratta di Cass. 12 dicembre 2017, n. 29637.

[7]Così Cass. 22 giugno 2022, n. 20315, secondo la quale “il cessionario di un credito beneficia ope legis, in conseguenza della cessione, degli effetti dell’azione pauliana vittoriosamente esperita dal cedente”.

[8]In questo senso, le recenti Cass., 23 febbraio 2023, n. 5649 e Cass. 12 luglio 2023, n. 19865.

[9]Come invece accade nelle impugnative negoziali in senso stretto (nullità, annullamento, rescissione e risoluzione). E’ evidente la differenza tra queste ultime e l’azione revocatoria: in quest’ultima, infatti, l’attore non è parte del negozio revocando ma terzo e, inoltre, l’interesse che lo spinge ad agire in giudizio non è quello di caducare l’atto dispositivo per rientrare nella disponibilità del cespite alienato, ma quello di soddisfare il proprio credito per via di espropriazione forzata (art. 602 c.p.c.) sul bene fraudolentemente alienato dal debitore. Diversamente – si è sostenuto: cfr. De Propris, Successione nel diritto controverso, cit., 657 ss., 697 ss. – nelle azioni di impugnativa negoziale l’attore – già parte del contratto – agisce in giudizio per caducare (anche) gli effetti dell’atto dispositivo: con l’accoglimento dell’impugnativa, dunque, l’effetto traslativo del contratto sulla proprietà del cespite (art. 1376 c.c.) è posto nel nulla e, dunque, può dirsi che la proprietà del cespite è “resa” controversa dalla pendenza dell’azione di impugnativa, con le dovute conseguenze in punto di applicazione dell’art. 111 c.p.c. se il convenuto trasferisce in pendenza di giudizio il «diritto controverso», nonostante quest’ultima non costituisce oggetto specifico del giudizio di impugnativa.

[10]Per più approfondite analisi, si rimanda sul punto a De Propris, Successione nel diritto controverso, cit., 703 ss.

[11]Si tratta, esemplificativamente, delle ipotesi in cui, in pendenza di un’azione di rivendica, il convenuto non trasferisca la proprietà del bene, ma costituisca un diritto reale minore (usufrutto, servitù, pegno, etc.) sul medesimo bene. Anche in tale ultimo caso non sussiste identità tra oggetto del processo e oggetto del trasferimento, per cui all’esito di quest’ultimo il dante causa non perde la legittimazione ad agire. Ne segue, per l’orientamento che inquadra l’art. 111 c.p.c. tra le ipotesi di sostituzione processuale, che l’istituto in esame non dovrebbe trovare applicazione.

[12]De Propris, Successione nel diritto controverso, cit., 677.

[13]Emblematiche in tal senso sono le parole impiegate da Cass., 23 febbraio 2023, n. 5649, la quale – prendendo espressamente posizione in riferimento al tema dell’oggetto della revocatoria – ha affermato come “non è possibile configurare un diritto alla declaratoria di inefficacia dell’atto come suscettibile di autonoma considerazione, agli effetti dell’art. 111 c.p.c., rispetto al diritto di credito cui l’azione revocatoria accede quale strumento finalizzato alla conservazione della garanzia patrimoniale di cui tale diritto gode ex art. 2740 c.c.. Chi agisce in revocatoria non fa valere un diritto diverso dal diritto di credito, ma propone un’azione a tutela dello stesso. La limitata funzione meramente conservativa della garanzia patrimoniale fa sì che, come detto, l’accertamento giudiziale del credito non costituisca presupposto, nè oggetto dell’azione revocatoria; ciò nondimeno la titolarità di un diritto di credito, anche sub iudice, costituisce pur sempre condizione dell’azione revocatoria, sotto il profilo della legitimatio ad causam dell’attore (Cass. n. 12975 del 30/06/2020 ; Cass., sez. 2, 04/11/2004, n. 21110). Ciò comporta che le vicende relative al credito vantato non rimangono prive di riflessi sull’azione revocatoria”. Ancora, la più recente Cass. 12 luglio 2023, n. 19865 ha affermato che in tema di azione revocatoria, qualora la parte attrice ceda il proprio credito durante la controversia, il cessionario può intervenire nel processo ai sensi dell’art. 111 c.p.c., quale successore nel diritto affermato in giudizio, poichè con la domanda ex art. 2901 c.c., si esplica la facoltà del creditore – che costituisce contenuto proprio del suo diritto di credito (presupposto e riferimento ultimo dell’azione esercitata) – di soddisfarsi su un determinato bene nel patrimonio del debitore”.

[14]In questo senso la giurisprudenza assolutamente maggioritaria della Corte di cassazione: cfr. Cass. 15 settembre 1995, n. 9727 Cass. 6 luglio 2001 n. 9211, pronunciata in materia di esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, che ha rappresentato il leading case, presto trasposto alla cessione del credito nell’espropriazione forzata: Cass. 11 marzo 2004, n. 4985; Cass. 24.1.2011, n. 1552; Cass. 16 novembre 2011, n. 23992; Cass. 12 aprile 2013, n. 8936; Cass. 22 giugno 2017, n. 15622.