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Sul regime temporale della translatio judicii nel prisma delle impugnazioni ex art. 105 c.p.a.
Di Ignazio Impastato -
Sommario: 1. – Premessa: un particolare profilo temporale dell’istituto della translatio judicii. – 2. Sull’applicabilità del termine di riassunzione dimidiato: la prospettiva “interna”. – 3. Sull’applicabilità del termine di riassunzione non dimidiato: la prospettiva “esterna”. – 4. Spunti conclusivi.
1.La questione in esame presenta alcuni elementi di interesse dal punto di vista dei rapporti tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario: e non sorprende che sia così, visto che non si è ancora registrata giurisprudenza sul punto[1].
Mi riferisco al profilo temporale, rectius ad uno dei profili temporali del fenomeno della “riassunzione” del giudizio amministrativo innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria secondo le dinamiche dell’istituto della cd. “translatio judicii”, la cui impalcatura normativa è stata cristallizzata con la legge 18 giugno 2009, n. 69 in omaggio ai principi del giusto processo e della effettività della tutela giurisdizionale[2].
La questione, in breve, riguarda la ricevibilità dell’atto di riassunzione, rectius di riproposizione del giudizio innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria operato in violazione del termine previsto dall’art. 11 c.p.a.[3], con conseguente (declaratoria di) estinzione del giudizio.
L’art. 11, comma 2, c.p.a. prevede, com’è noto, che “quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato”.
Allorquando la parte soccombente in un giudizio conclusosi con una sentenza declinatoria della giurisdizione pronunciata in grado di appello ex art. 105 c.p.a. provvede ad incardinare il giudizio in riassunzione si pone il problema di individuare quale sia il termine utile al passaggio in giudicato della decisione (oltre a quello di tre mesi contemplato dall’art. 11 c.p.a.[4]).
Questa breve riflessione si concentrerà sugli aspetti strettamente tecnico-giuridici delle questioni affrontate, ancorché, sullo sfondo, si arrivi a lambire la dimensione costituzionale del diritto di difesa.
2.Com’è noto, in virtù del combinato disposto degli artt. 105, comma 2, 87, comma 3, e 92, comma 3, c.p.a. il termine per proporre appello avverso la sentenza declinatoria della giurisdizione è dimezzato rispetto ai termini ordinari[5].
In particolare, l’art. 105, comma 2, c.p.a. dispone che “nei giudizi di appello contro i provvedimenti che hanno declinato la giurisdizione o la competenza si segue il procedimento in camera di consiglio di cui all’articolo 87, comma 3”.
Quest’ultima disposizione, a sua volta, prevede che nei procedimenti in camera di consiglio “tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti”.
È da chiedersi, tuttavia, se a tale cornice normativa debba ascriversi altresì il regime temporale delle impugnazioni delle decisioni di secondo grado.
La lettura congiunta delle due disposizioni sopra riportate sembra suffragare l’assunto secondo cui i termini per appellare tutte le sentenze declinatorie della giurisdizione siano dimezzati e, dunque, il c.d. termine breve o lungo sia, rispettivamente, di uno o di tre mesi decorrenti, rispettivamente, dalla notificazione o dalla pubblicazione della sentenza[6].
In altre parole, anche per le sentenze emanate dal Consiglio di Stato e del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione siciliana il termine per il passaggio in giudicato della sentenza potrebbe, cioè, ritenersi dimidiato in ossequio al disposto dell’art. 87, comma 3, c.p.a.
Invero, così come la decisione del Tribunale Amministrativo Regionale deve essere impugnata, a pena di passaggio in giudicato, entro il termine dimezzato decorrente dalla notificazione-pubblicazione, così quella del giudice di secondo grado diventerà definitiva decorso il medesimo lasso temporale.
D’altra parte, accogliendo una diversa ricostruzione si addiverrebbe alla conclusione secondo cui le sentenze di primo e secondo grado passerebbero in giudicato secondo termini differenti: differenziazione che peraltro stride con un l’elemento “ambientale” dello specifico giudizio ex art. 105 c.p.a., la cui udienza si svolge (anche in appello) in camera di consiglio ex art. 87 c.p.a.
3.Nel prisma delle impugnazioni di secondo grado ex art. 105 c.p.a., la prospettiva sistematica per così dire interna della translatio judicii va incontro tuttavia a delle controindicazioni, ove non ad effetti collaterali.
A tale riguardo non ritengo opportuno indugiare oltremodo sulla praticabilità della interpretazione analogica (e/o estensiva) in relazione al regime di impugnazione delle sentenze emesse dal T.A.R. ex art. 105 c.p.a. (di primo grado) in punto di giurisdizione[7].
In senso contrario alla praticabilità di una siffatta interpretazione basterebbe rilevare la natura eccezionale della regola della dimidiazione dei termini, che va letta in conformità al canone enunciato dall’art. 14 delle preleggi, secondo cui le leggi “che fanno eccezione a regole generali (…) non si applicano oltre i casi (…) in esse considerati”.
Piuttosto, è da percorrere la diversa strada della interpretazione letterale e sistematica, che induca ad assumere una prospettiva “esterna” nel senso appresso esplicitato.
Invero, il regime di impugnazione proprio delle sentenze emesse in secondo grado ex art. 105 c.p.a., dal Consiglio di Stato o dal Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana va configurato diversamente.
Secondo il combinato disposto degli artt. 110 c.p.a. (“Motivi di ricorso” per Cassazione), 39 c.p.a. (“Rinvio esterno”), 327 c.p.c. (“Decadenza dall’impugnazione”) e 362 c.p.c. (“Altri casi di ricorso”), le sentenze di appello emesse dal giudice amministrativo sono passibili di (mezzi di) impugnazione, ivi incluso il ricorso per cassazione, entro il termine breve o lungo di impugnazione.
Alla stregua di tale combinazione applicativa deve escludersi il dimezzamento dei termini in seno al procedimento di riassunzione del giudizio, evitandosi così di fare confusione con il passaggio in giudicato delle sentenze di primo grado dei Tribunali amministrativi regionali declinatorie della giurisdizione.
Com’è noto, infatti, le sentenze di primo grado non sono impugnabili per Cassazione ma unicamente ex art. 105 c.p.a. innanzi al Consiglio di Stato o al C.G.A.R.S.; mentre, nell’ipotesi considerata siamo di fronte alla riassunzione di un giudizio che muove da una sentenza di appello, confermativa dell’esito declinatorio di primo grado.
Non è dato, dunque, rinvenire alcuna lacuna normativa tale da accreditare una diversa interpretazione.
Mette conto di rilevare, del resto, che la giurisprudenza amministrativa ha operato una ricostruzione sistematica del combinato disposto di cui agli artt. 87 e 105 c.p.a.) con riguardo al profilo interno del giudizio amministrativo, mentre il ricorso per Cassazione ha rilevanza “esterna” al processo amministrativo e, quindi, sfugge alla “giurisdizione nomofilattica” endoprocessual-amministrativa[8].
Dirimente appare poi il seguente rilievo.
Nella questione prospettata è in gioco il momento di esercizio dell’azione (i.e. la proposizione della domanda o edictio actionis), sia pure in riassunzione, non già quello dello svolgimento di una impugnazione (né tampoco di un atto processuale interno): di talché la presente fattispecie rientra a pieno titolo nell’eccezione che il terzo comma dell’art. 87 c.p.a. opera rispetto all’applicazione dei termini dimidiati (“… i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti”).
Un’ulteriore considerazione, infine, riguarda quello che sopra ho identificato come un profilo “ambientale” del percorso argomentativo sopra accennato e che ora tradisce la sua ultroneità.
Mi riferisco allo spunto sulla natura camerale del giudizio al fine di corroborare la ratio della regola della dimidiazione dei termini di impugnazione: si tratta di un argomento che prova troppo[9].
È noto, infatti, che nel Codice del processo amministrativo anche le sentenze di primo grado declinatorie della giurisdizione emesse ad esito dell’udienza pubblica sono altresì soggette al regime di impugnazione ex artt. 87, comma 3 e 105 c.p.a. (con conseguente applicazione dei termini dimidiati), al pari di quelle emesse ad esito delle camere di consiglio[10].
4. Come si accennava in premessa, la questione lambisce temi fondamentali della giustizia (non solo) amministrativa[11].
L’applicazione analogica-estensiva del termine di impugnazione dimidiato va invero ad impattare sull’ubi consistam del diritto di difesa e, più in generale, dell’azione processuale puntellata, com’è ormai, dai principi del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale, che mal tollerano le conseguenze tranchant derivanti dalla mancata riassunzione, rectius dalla non “riassumibilità” del giudizio “a quo” (ovvero dalla natura autonoma del giudizio re-instaurato).
Invero, la declaratoria di estinzione del giudizio per tardiva riassunzione sortirebbe l’effetto (indiretto) di imputare alla parte la decisione di non avvalersi del meccanismo processuale della translatio judicii, appositamente previsto dalle rispettive normative processuali (nel nostro caso, dall’art. 11, comma 2, c.p.a.).
Ma una conseguenza siffatta dovrebbe costituire una scelta processuale autonoma e soprattutto consapevole in ragione delle notevoli implicazioni sistematiche che devono pur sempre conciliarsi con la non unicità dei plessi giurisdizionali[12].
Perché se è vero che nella questione presa in esame il rischio di consunzione dell’azione potrebbe rivelarsi poco significativo in ragione dell’operatività del regime della prescrizione e soprattutto dell’applicabilità dell’art. 125 disp. att. c.p.c., nell’ipotesi inversa della translatio del giudizio civile verso quello amministrativo tale rischio assumerebbe dimensioni tali da paralizzare (e/o sterilizzare) il diritto di azione e, quindi, di difesa[13], con buona pace del “principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta”[14].
[1] Sui rapporti tra giurisdizione amministrativa e ordinaria, v. F. Patroni Griffi, Per un franco dialogo tra giurisdizioni alla luce delle trasformazioni del potere pubblico, in www.giustizia-amministrativa.it, 2023; per A. Panzarola, Limiti interni della giurisdizione, in R. Martino (a cura di), La giurisdizione nell’esperienza giurisprudenziale contemporanea, Milano, 2008, p. 113 ss., il tema della comunicabilità delle giurisdizioni è -e deve essere- una costante del nostro ordinamento.
È interessante notare come nella letteratura amministrativistica precedente al doppio intervento della giurisprudenza nel 2007 e del legislatore nel 2009 si fosse prestata poca attenzione al fenomeno, tanto che in generale v’è chi parlava di incomunicabilità tra i plessi giurisdizionali: M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 131.
[2] Preceduta dal diritto vivente (su tale nozione-sintagma, di recente, G. Canzio, Corte di cassazione e Corte costituzionale: il diritto vivente quale fondamento del giudizio di legittimità costituzionale, in www.giustiziainsieme.it, 2023) e segnatamente dalle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 22 febbraio 2007, n. 4109 (in www.cortedicassazione.it) e, a distanza di soli diciotto giorni (12 marzo 2007), dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 77, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (in www.giurcost.org).
L’istituto della translatio judicii, disciplinato dall’art. 59 della menzionata legge n. 69/2009, risulta oggi regolato, per quel che concerne nello specifico il processo amministrativo, dall’art. 11 decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 s.m.i., ai sensi del quale il processo (o giudizio?) promosso innanzi ad un giudice carente di giurisdizione può essere riassunto davanti al giudice munito di giurisdizione, fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato.
Sul versante amministrativistico dell’istituto, in chiave monografica, M. Palma, Processo amministrativo e translatio judicii, Torino, Giappichelli, 2017, passim; si veda pure il saggio di A.G. Orofino, Translatio judicii e modifica della domanda innanzi al giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1/2017, 44 ss.; tra i primi commenti alla normativa codicistica, G.A. Primerano, La translatio judicii tra questioni vecchie e nuove: da potere del giudice a diritto del cittadino, in Foro Amm. CDS, 10/2012, p. 2535 ss.
In chiave storica, naturalmente bisogna rifarsi alla letteratura processual-civilistica che, com’è noto, muove dalla questione di competenza: G. Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), a cura di A. Proto Pisani, Milano, Giuffrè, 1993, vol. II, p. 113 ss.; sul tema anche F. Cipriani, Il regolamento facoltativo di competenza, in Riv. dir. proc., 1976, p. 517 ss. Sull’origine dell’istituto della translatio, che muove dalla dottrina di Mortara, v. A. Squazzoni, Declinatoria di giurisdizione ed effetto conservativo del termine, Milano, Giuffré, 2013 a cui si fa rinvio anche per gli ulteriori temi qui implicitamente richiamati.
Critico verso la superfetazione del principio della effettività della tutela giurisdizionale in ambiti siffatti è R. Vaccarella, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e translatio judicii, in www.federalismi.it.
[3] Il Consiglio di Stato ha preferito ricorrere all’espressione tecnica “riproposizione” anziché riassunzione, sicché, nel caso sottoposto alla sua attenzione, il ricorso riproposto doveva, tra l’altro, vantare i requisiti previsti dall’art. 40, comma 1, lett. d) c.p.a. per l’atto di introduzione del giudizio “non trovando applicazione l’art. 125 delle disposizioni attuative del c.p.c. sia perché non è applicabile il rinvio esterno ex art. 39 c.p.a (che serve ad integrare le disposizioni che disciplinano il processo dinanzi al Giudice amministrativo applicando le disposizioni del c.p.c.) sia perché l’art. 125 delle disposizioni attuative del c.p.c. disciplina gli atti di “riassunzione” mentre in caso di “translatio judicii” la parte è tenuta a “riproporre” l’atto introduttivo del giudizio” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 10978/2023).
[4] L’ulteriore termine di tre mesi è stato introdotto dall’art. 59 della legge n. 69 del 18 giugno 2009 e poi recepito anche nel Codice del processo amministrativo.
[5] Cfr. in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 11 ottobre 2016, n. 4196; V, 18 luglio 2017, n. 3544; 12 ottobre 2016, nn. 4222 e 4223; 11 ottobre 2016, n. 4185 (con le quali, tra l’altro, è stata negata la concessione dell’errore scusabile); 20 luglio 2016, n. 3262; 25 gennaio 2016, n. 228, tutte reperibili, come pure quelle appresso riportate nel testo o in nota, su www.giustizia-amministrativa.it.
[6] Quest’ultimo lo si ricava, in particolare, dall’applicazione del dimezzamento del termine ordinario di sei mesi per proporre appello, previsto in generale dall’art. 92, comma 3, c.p.a. (Cons. Stato, Sez. V, n. 5835/2017), mentre il primo è previsto dal primo comma della medesima disposizione.
[7] Per un tentativo siffatto sia pure su un tema diverso, v. G. Pino, Interpretazione storico-evolutiva, analogia diacronica, e altri esperimenti di alchimia interpretativa (a margine di una pronunzia delle sezioni unite sul leasing finanziario) (Nota a Cass. 28 gennaio 2021, n. 2061), in Foro it., 3, 2021, p. 865 ss.; più di recente, amplius, Id., L’interpretazione nel diritto, Torino, Giappichelli, 2021, passim.
[8] Sul rapporto tra i codici processuale amministrativo e di procedura civile v. A. Travi, Il c.d. rinvio esterno nel codice del processo amministrativo, in AA.VV., Il cittadino e la pubblica amministrazione. Giornate di Studi in onore di Guido Corso, Napoli, Editoriale scientifica, 2016.
[9] Sulla ratio dell’udienza camerale, tra gli altri, G. Carlotti, Le questioni di giurisdizione in appello, in Libro dell’anno del diritto 2013, Treccani, Roma; amplius, F.G. Scoca, Statica del processo. L’udienza, in Id. (a cura di) Giustizia amministrativa, III ed., Torino, Giappichelli, 2011, p. 258; A. Crismani, Le udienze nel processo amministrativo, in Giustamm, 2011.
[10] Lo stesso dicasi per le sentenze della Corte di Cassazione emesse ex art. 375, comma 1 n. 4) c.p.c., per le quali valgono termini diversi ancorché “la Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio … sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione”.
Sulla diversità di termini di impugnazione in appello nel processo amministrativo tra rito ordinario e riti speciali, v. E. Picozza, Il processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2008, p. 414.
[11] Trattasi di una questione trans-disciplinare di diritto processuale amministrativo nel senso che a fronte di una eccezione di irricevibilità dell’atto di riassunzione per tardività potrebbe essere il giudice ordinario a dover applicare anche d’ufficio (e/o interpretare) la normativa processual-amministrativa nel contesto processual-civilistico. Per alcuni recenti manuali sul “diritto processuale amministrativo”, v. S. Perongini – G.P. Cirillo, Diritto processuale amministrativo, Torino, Giappichelli, 2020; F. Cortese, Corso di diritto processuale amministrativo, Firenze, Le Monnier Università, 2021; F.S. Marini – A. Storto, Diritto processuale amministrativo, Milano, La Tribuna, 2018.
[12] Sul carattere dell’istituto della translatio diviso tra unicità e unità della giurisdizione, da ultimo, si vedano alcune interessanti pronunce della giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2024, n. 2964; C.G.A.R.S., Sez. I, 27 luglio 2023, n. 468.
[13] Come già sopra accennato (v. nt. 12), secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, “a valle della declaratoria di giurisdizione da parte del giudice ordinario, troverà applicazione presso il giudice investito della lite, il meccanismo della “riproposizione” del processo per cui, quanto al profilo formale, l’atto deve essere riproposto dinanzi al giudice amministrativo nel rispetto delle disposizioni del c.p.a. che disciplinano l’atto introduttivo del giudizio dinanzi al T.a.r. e in particolare quindi nel rispetto degli artt. 40 e 41 del c.p.a. Non può infatti, trovare applicazione l’art. 125 delle disposizioni attuative del c.p.c. in forza del rinvio esterno ex art. 39 c.p.a. poiché il rinvio esterno opera in funzione del fatto che vi siano dei vuoti di disciplina nel codice del processo amministrativo, elemento che invece non sussiste nel caso in esame, in cui il codice del processo amministrativo contiene le regole disciplinanti il contenuto del ricorso e le modalità di introduzione della domanda da legge unitamente alla disciplina dell’art. 11 dello stesso codice. A maggior ragione tale tesi deve ritersi preferibile (…) poiché la disciplina dell’art. 125 delle disposizioni attuative del c.p.c. concerne gli atti di “riassunzione” mentre nel caso in esame l’art. 11 del c.p.a. si esprime chiaramente in termini di “riproposizione” (commi 2 e 3 art. 40 c.p.a.); del resto, laddove il legislatore codicistico ha voluto fare riferimento all’istituto della ‘riassunzione’ lo ha indicato espressamente, come nell’art. 80 c.p.a. ‘Prosecuzione e riassunzione del processo sospeso’” (Cons. Stato, Sez. IV, n. 10978/2023).