Sulla partecipazione dell’estensore della proposta di definizione accelerata ex art. 380-bis c.p.c. all’adunanza in camera di consiglio

Di Filippo Nicolai -

Sommario: 1. – Premesse. 2. – Il sistema disegnato dal legislatore della riforma e l’efficacia decisoria, pur anomala, della proposta di definizione accelerata ex art. 380-bis c.p.c. 3. – Spunti a sostegno della non ricusabilità dell’estensore della proposta di definizione accelerata. 4. – Brevi conclusioni.

1. Con ordinanza del 19 settembre 2023 della Prima Presidente è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione se l’estensore della «proposta» di definizione accelerata ex art. 380-bis c.p.c. – una volta che sia stata ritualmente presentata (per il tramite del difensore munito di nuova procura speciale) apposita istanza dalla parte interessata all’accoglimento del ricorso – possa assumere la veste di relatore in occasione dell’adunanza in camera di consiglio, cui segue la decisione collegiale[1].

La disposizione da ultimo citata, infatti, non rende alcuna indicazione sul punto, stimolando di conseguenza il suddetto interrogativo, a cui sono state fornite due risposte sostanzialmente antitetiche. L’ordinanza di rimessione riepiloga, pur brevemente, i due opposti orientamenti, che giova riassumere, nei loro tratti essenziali, anche di seguito.

Secondo un primo ordine di idee, condiviso dai più, una soluzione affermativa alla suesposta questione ingenererebbe non pochi dubbi sulla tenuta costituzionale della disposizione in commento, in specie perché la stessa – se così interpretata – potrebbe legittimare quantomeno il sospetto, secondo la comune esperienza, che l’esito del giudizio sia condizionato dal convincimento già maturato dall’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c. al momento dell’adozione della stessa, con la conseguenza che la decisione finale parrebbe, dunque, in contrasto con i principi di terzietà e imparzialità del giudicante perché non scevra, quantomeno all’apparenza, da precedente «pregiudizio»[2]. Di conseguenza, per ampia parte della dottrina, sarebbe da interdire non solo la partecipazione di detto soggetto al collegio in qualità di relatore, ma, a monte, la possibilità che lo stesso possa partecipare quale semplice consigliere membro[3], con conseguente ricusabilità di quest’ultimo[4].

Secondo altro e opposto ordine di idee, invece, la partecipazione dell’estensore della proposta di decisione accelerata al collegio (sia nella veste di relatore sia in quella di semplice membro) non influenzerebbe negativamente, nei termini anzidetti, il contenuto della decisione finale, atteso che tutti i potenziali esiti decisori rimarrebbero comunque impregiudicati. In sostanza, la decisione finale – facendo eco ai principi in tema di «atto complesso» – esprimerebbe sempre e comunque una volontà altra e diversa da quelle espresse dai singoli componenti, in ogni caso affrancata da quanto in precedenza prospettato[5].

In assenza di espliciti indici testuali, dunque, gli interpreti, in estrema sintesi, hanno assunto posizioni diametralmente opposte, in ragione della diversa valutazione, su un piano più che altro fattuale, dell’influenza che la partecipazione al collegio dell’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c. potrebbe determinare sul contenuto della decisione finale: irrimediabilmente condizionante, per il primo orientamento suesposto, neutra o finanche positiva, per il secondo.

Ad opinione di chi scrive – nonostante la validità delle argomentazioni spese dalla maggior parte della dottrina – sembrerebbero esservi alcuni argomenti atti a legittimare la possibilità che l’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c. prenda parte all’adunanza decisoria.

Ai fini della presente trattazione, giova, dunque, brevemente ricostruire il sistema delineato dal legislatore della riforma, con evidenziazione delle ragioni che hanno condotto parte della dottrina a concludere per l’incompatibilità dell’estensore della proposta con il ruolo di consigliere membro del collegio in camera di consiglio.

2. Come è noto, il novellato art. 380-bis c.p.c. attribuisce ad un singolo magistrato, il presidente di sezione o un consigliere da questo delegato, la facoltà di formulare – qualora ravvisi l’inammissibilità, l’improcedibilità o la manifesta infondatezza del ricorso (principale e di quello incidentale eventualmente proposto) – «una sintetica proposta di definizione del giudizio»[6], la quale, una volta comunicata ai difensori delle parti costituite, condiziona irrimediabilmente il successivo svolgimento del giudizio di cassazione.

Difatti, viene rimessa alla parte la possibilità di optare – tramite la proposizione di apposita istanza ad opera del difensore, da depositarsi entro il termine perentorio di 40 giorni dalla data di comunicazione della proposta, previo conferimento, a quest’unico e specifico fine, di nuova procura speciale[7] – per la prosecuzione del giudizio, che andrà avanti nelle forme di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., ovvero per la chiusura in rito dello stesso ai sensi dell’art. 391 c.p.c. (il ricorso, viene disposto, «si intende rinunciato»), che sarà pronunciata a seguito del semplice decorso del suddetto termine senza che venga chiesta la decisione.

A questa seconda ipotesi si accompagna un effetto «premiale»[8], voluto dal legislatore della riforma, in quanto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater.1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, viene esclusa l’applicabilità del raddoppio del contributo unificato – imposto dall’art. 13, comma 1-quater quando l’impugnazione «è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile» – qualora il giudizio di cassazione venga «dichiarato estinto ai sensi dell’articolo 380-bis, secondo comma, ultimo periodo»[9].

Per l’ipotesi di prosecuzione del giudizio è, invece, previsto innanzitutto che la stessa avvenga nelle forme della decisione in camera di consiglio, con la primaria conseguenza che alle parti viene concesso il solo deposito di «sintetiche memorie illustrative» non oltre dieci giorni prima dell’adunanza[10].

Dopo il deposito di tali memorie, il collegio pronuncerà, secondo il suo intendimento e senza essere vincolato a recepire il contenuto della proposta di definizione accelerata, il provvedimento conclusivo del giudizio, il quale – se sostanzialmente coincidente nel contenuto con quest’ultima – dovrà necessariamente disporre la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma di denaro equitativamente determinata in favore della controparte costituita, ai sensi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c., nonché di un’ulteriore somma di denaro, a prescindere altresì dalla costituzione in giudizio di controparte, non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000 in favore della cassa delle ammende, ai sensi dell’art. 96, comma 4°, c.p.c.; il tutto oltre il «raddoppio del contributo unificato» da applicarsi in virtù dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, già citato.

La condanna al pagamento di tali somme non è rimessa alla discrezionalità del collegio e trova attuazione quale necessario automatismo imposto dal legislatore in un’ottica di deterrenza sanzionatoria di iniziative processuali senza fondamento[11].

Il sistema, per come tratteggiato dal legislatore processuale, appare il più possibile improntato a favorire la conclusione del procedimento a seguito della proposta di definizione accelerata, scoraggiando ogni volontà di perseverare nell’impugnazione, tanto che parte della dottrina è stata portata a ritenere che la proposta di definizione, in realtà, celerebbe una vera e propria decisione «opponibile» dalla parte interessata[12] e adottata da quello che è stato evocativamente definito «giudice monocratico» di cassazione (in aperto contrasto, peraltro, con la necessaria collegialità del giudizio di legittimità ex art. 67 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12)[13].

Suffragherebbero tale conclusione molteplici indici normativi, quali ad esempio, senza pretesa di esaustività, la necessità del conferimento di una nuova procura per la prosecuzione del giudizio, l’estinzione del giudizio determinata dal semplice «silenzio» della parte interessata all’accoglimento del ricorso ovvero l’automatica applicazione dell’art. 96, commi 3° e 4°, c.p.c. in caso di decisione assunta in conformità con il contenuto della proposta.

Da ciò discenderebbe l’incompatibilità dell’estensore della proposta a prendere parte al collegio decidente, essendo detta proposta una «decisione vera e propria, una anticipazione di giudizio (perfettamente idonea a definirlo)»[14], con la conseguenza che, per altra parte della dottrina, più esplicitamente, dovrebbe derivare la ricusabilità dell’estensore della proposta quale membro del collegio, ricorrendo, nel caso di specie, «una chiara ipotesi di precognizione sulla materia oggetto del contendere» ai sensi dell’art. 51, n. 4), c.p.c.[15].

3. Nonostante la validità delle argomentazioni spese dalla maggior parte della dottrina (e brevemente esposte), il nostro sistema di giustizia processuale sembra offrire alcuni spunti che consentono di sostenere che l’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c. possa prender parte – una volta che sia stata ritualmente presentata apposita istanza dalla parte interessata all’accoglimento del ricorso – al collegio decidente.

Nel caso di specie, in sintesi, la ricusazione dell’estensore della proposta di definizione accelerata sarebbe legittimata dal fatto che lo stesso abbia anticipato il proprio convincimento prima dell’adozione della decisione finale mediante un provvedimento avente efficacia decisoria, pur anomala, con la conseguenza che lo stesso difetterebbe di imparzialità e terzietà qualora chiamato ad assumere la veste di membro del collegio decidente.

Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare che l’ordinamento processual-civilistico non impone esplicitamente nessun obbligo di astensione al magistrato che, nel compimento legittimo di atti processuali, abbia manifestato, all’interno dello steso grado di giudizio, di aver maturato il proprio convincimento sull’esito della lite prima dell’adozione della decisione finale.

Infatti, nell’elenco degli obblighi di astensione di cui all’art. 51 c.p.c. – recante peraltro prescrizioni, ad opinione di chi scrive, da considerarsi tassative, nonché di stretta interpretazione[16] (fatta salva solamente un’interpretazione evolutiva coerente con i tempi odierni) – è assente una disposizione avente tale contenuto.

Per tale ragione, riferendosi genericamente agli studi in materia, l’obbligo di astensione fondato sulla c.d. «anticipazione del convincimento» tramite il compimento di atti processuali è stato ricostruito come vigente nel nostro sistema di giustizia processuale civile, mediante due diversi procedimenti di ermeneutica normativa.

In primo luogo, parte della dottrina ha, già da tempo, suggerito la possibilità di applicare analogicamente al processo civile la previsione di cui all’art. 37, comma 1°, lett. b), c.p.p.[17], la quale prevede che il giudice può essere ricusato dalle parti «se nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, egli ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione».

Tuttavia, a partire da tale disposizione risulta evidente che, a contrario, non sia ricusabile il magistrato che abbia anticipato il proprio convincimento «debitamente» – ossia qualora «(…) altro non faccia che adempiere, nei dovuti modi, ai compiti istituzionalmente assegnatigli dalla legge (…)»[18] – con la conseguenza che non potrebbe mai essere ritenuta indebita «l’anticipazione del possibile esito della controversia espressa dal giudice nel contesto di un tentativo di conciliazione delle parti, sia esso obbligatorio o facoltativo»[19], similmente a quanto accade nel caso di specie.

Senza indugiare oltre, non sembra dunque che l’art. 37, lett. b), c.p.p. possa esser correttamente richiamato per legittimare la ricusabilità dell’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c.

In secondo luogo, altra parte della dottrina ha, invece, ritenuto che un simile ampliamento del novero delle incompatibilità funzionali nel processo civile debba passare per un’interpretazione non letterale dell’art. 51, n. 4), c.p.c. nella parte in cui lo stesso impone l’obbligo di astensione del giudicante che ha «conosciuto [della lite] come magistrato in altro grado del processo». In quest’ottica, il necessario rispetto dei principi di imparzialità e di terzietà imporrebbe, infatti, di leggere la disposizione come se la stessa si riferisse non già ad «altro grado», bensì ad «altra fase del processo», in modo tale da poter ritenere che la stessa si applichi anche a fattispecie in cui il giudice sia chiamato a rendere una nuova decisione sulla medesima res iudicanda  (i.e., dopo aver già adottato un provvedimento, lato sensu, decisorio che presupponga una valutazione nel merito della lite), a prescindere dell’esercizio dei mezzi di impugnazione[20].

Tale interpretazione è stata sostanzialmente avallata dalla Corte costituzionale che, con una pronuncia interpretativa di rigetto, ha ritenuto che l’espressione «‘altro grado’ non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, ma deve ricomprendere  – con una interpretazione conforme a Costituzione – anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (…) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario»[21]. In altri termini, per dirla con le parole di autorevole dottrina, al fine della ricorrenza di tale obbligo di astensione sarebbe necessario e sufficiente che «si tratti di due decisioni sulla stessa causa, comunque raccordate fra loro (non necessariamente dunque in via di devoluzione impugnatoria), ma distinte [e non già] di semplici tappe della graduale, articolata formazione di un unico finale convincimento decisorio»[22].

Ciò premesso, al fine di comprendere correttamente la portata applicativa di tale interpretazione e, conseguentemente, valutare l’applicabilità dell’art. 51, n. 4, c.p.c. al caso di specie, occorre tenere in considerazione quanto segue.

È stato, a ragione, rilevato che il citato obbligo di astensione di cui all’art. 51, n. 4), c.p.c. sia posto a garanzia non già dell’imparzialità e terzietà del giudicante, ma semplicemente della coerenza e della razionalità del sistema delle impugnazioni civili, in quanto mira ad evitare l’inutilità (e l’apparente inutilità) dell’impugnazione o, in genere, di un nuovo riesame, a causa del rischio che l’ingiustizia del provvedimento lamentata dalla parte tramite i mezzi approntati dall’ordinamento non sia correttamente percepita dal giudicante, il quale, non già per difetto di imparzialità (o terzietà), ma per semplice coerenza, ritenga di aver già giustamente giudicato[23].

Il legislatore processuale – in un’ottica di garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale – sembra voler semplicemente assicurare un’ulteriore e concreta possibilità di ottenere la soddisfazione delle proprie pretese a chi ritenga che le stesse siano state ingiustamente negate. La conseguenza di ciò è che il solo fatto di aver manifestato il proprio convincimento, per il tramite del compimento legittimo di atti processuali idonei ad anticipare parzialmente o integralmente la decisione finale, risulta irrilevante, ai fini dell’eventuale ricusabilità del magistrato, se tale convincimento possa ancora mutare in ragione del semplice contraddittorio tra giudice e parti[24].

In altri e più chiari termini, l’obbligo di astensione ricorrerebbe, dunque, qualora il singolo magistrato, che ha adottato un provvedimento avente efficacia decisoria, sia chiamato nuovamente a conoscere della lite – non necessariamente in conseguenza dell’esercizio dei mezzi di impugnazione – in una successiva «fase del giudizio», deputata a decidere sulla correttezza, in punto di fatto e di diritto, di quanto in precedenza già deciso (svolgendo, dunque, una funzione sostanzialmente impugnatoria).

Al contrario, tale obbligo non sembrerebbe sussistere quando invece gli effetti del provvedimento, per così dire, «anticipatorio» possano essere fisiologicamente assorbiti e sostituiti – a fronte dello sviluppo del contraddittorio e a prescindere della censura dell’ingiustizia del provvedimento (se non indirettamente per le ragioni che sono state poste a fondamento dello stesso) – dalla decisione finale, comunque affrancata da quanto in precedenza già deciso.

Testimonianza concreta della correttezza di questa lettura è data dalla disciplina dei provvedimenti cautelari «anticipatori», in relazione ai quali se, da una parte, al giudice che ha emesso un provvedimento di questo tipo, anche ante causam, non è impedito di conoscere del merito[25], dall’altra, il legislatore processuale all’art. 669-terdecies, comma 2°, c.p.c. ha previsto meccanismi volti ad impedire che i magistrati che abbiano impersonato o fatto parte dell’organo che ha emesso un provvedimento cautelare possano far parte dell’organo chiamato a decidere sul reclamo proposto avverso lo stesso.

Tanto premesso, venendo al caso di specie, è pur vero che l’attuale sistema risulta profondamente differente rispetto a quello disegnato dalla precedente formulazione dell’art. 380-bis c.p.c., legittimando il sospetto di un’efficacia decisoria, pur anomala, della proposta di definizione accelerata[26]; ma è altrettanto vero che il problema degli effetti di tale provvedimento, e dunque della decisorietà dello stesso, deve essere apprezzato – quanto al profilo in commento – in relazione al condizionamento che il contenuto della proposta possa determinare, in termini di minore ampiezza, sul potere decisorio spettante al collegio, e non già in relazione alla sua idoneità ad atteggiarsi, pur impropriamente, quale mezzo idoneo a determinare la conclusione del giudizio (o comunque a produrre conseguenze giuridicamente rilevanti).

Una volta che la parte interessata all’accoglimento del ricorso – alla cui volontà è unicamente rimessa tale scelta e senza che sia necessario sottoporre a critica il contenuto della proposta di definizione accelerata – abbia ritualmente richiesto la decisione collegiale, l’insieme degli effetti prodotti dalla (comunicazione della) proposta rimangono confinati alla fase precedente e sono dunque superati, essendo il collegio libero di assumere una decisione avente un qualsiasi contenuto, fatta solamente eccezione per la necessaria applicazione dell’art. 96, commi 3° e 4°, c.p.c. quando la Corte «definisce il giudizio in conformità alla proposta».

L’oggetto della decisione del collegio non è (e non può essere), infatti, la proposta di definizione accelerata, ma il ricorso, cosa che pare altresì testimoniata dall’opzione legislativa che ha imposto l’applicazione delle modalità previste per la decisione in camera di consiglio, che consentono il deposito di «sintetiche memorie illustrative» volte appunto a meglio esplicitare i motivi di impugnazione e non, invece, ad addurre motivazioni a sostegno dell’erroneità del contenuto della proposta (ancorché queste ultime possano sicuramente entrare a far parte di tale ultimo atto[27]).

Questa seconda «fase» del giudizio non sembra, quindi, avere ad oggetto una decisione sulla legittimità di provvedimento precedentemente emessa, ma pare semplicemente introdurre una modalità di formazione progressiva del convincimento del giudice, così da escludere che possa trovare applicazione l’art. 51, n. 4), c.p.c.

Ne consegue che – servendosi delle parole di autorevole dottrina – non si vede «perché dovrebbe esser allontanato dal processo il giudice che, in un ruolo attribuitogli dalla legge e nel corretto esercizio dei relativi poteri, abbia pronunciato in corso di causa (in una stessa fase o in una fase anteriore del medesimo grado, quale che ne sia il collegamento funzionale con la fase successiva) un provvedimento lato sensu decisorio, cha ha il solo difetto di rendere meno imprevedibile il contenuto della decisione definitiva»[28].

4. A quanto appena riportato, possono essere aggiunte alcune brevissime considerazioni di opportunità in relazione agli aspetti favorevoli che potrebbero discendere dall’una o dall’altra interpretazione.

Infatti, da un lato, assicurare la partecipazione dell’estensore della proposta all’adunanza in camera di consiglio in veste di relatore agevola, in conformità alla ratio ispiratrice della riforma, la realizzazione di un processo di cassazione ispirato al principio della «ragionevole durata»[29].

Dall’altro, invece, imporre che altro consigliere svolga la funzione di relatore in camera di consiglio (sia che si voglia o meno ammettere che nella stessa sia chiamato a partecipare quale semplice membro anche l’estensore della proposta) assicura certamente una miglior qualità della decisione giudiziaria, in coerenza con il principio del «giusto processo», essendo (non uno, bensì) due i consiglieri chiamati a studiare approfonditamente il fascicolo.

È certo, però, che l’esclusione dell’estensore della proposta dal collegio decidente in qualità di relatore vanificherebbe grandemente gli sforzi del legislatore della riforma, il quale – nell’idea di introdurre un meccanismo deflattivo-acceleratorio – avrebbe, invece, ulteriormente appesantito i tempi della giustizia civile, con conseguente necessità di un intervento correttivo a stretto giro.

 

[1] Cass., Prima Presidente M. Cassano, 19 settembre 2023.

[2] L’estensore della proposta sarebbe limitato dalla c.d. «forza della prevenzione», ossia dall’incosciente ritrosia, su un piano eminentemente psicologico, a mutare il proprio convincimento già raggiunto, condizione intollerabile per il giudice penale del dibattimento (il quale deve auspicabilmente arrivare in uno stato di «verginità cognitiva», L. Dittrich, La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, in Riv. dir. proc.2002, 1150, senza poter far riferimento agli atti delle indagini preliminari) e che orienta, ormai da tempo l’interpretazione del sistema delle incompatibilità di cui all’art. 34 c.p.p. (Corte cost. 15 settembre 1995, n. 432, in Foro it. 1995, I, 3068, e in Foro it. 1996, I, 411 ss., con nota di P. Gaeta, G. Tei, I pregiudizi sul pregiudizio ovvero il falso mito della verginità del «giudice del merito»). Autorevole dottrina ha, però, correttamente evidenziato come la maturazione anticipata del convincimento, a differenza di quanto accade in sede penale, è addirittura un valore perseguito dalla giurisdizione civile, in un’ottica di formazione progressiva del contenuto della decisione, cosicché sarebbe da escludersi la possibilità di riconoscere valenza a tale fenomeno al fine di ampliare gli obblighi di astensione del giudice civile (B. Cavallone, Ancora sulla «precognizione» del giudice civile come preteso motivo di astensione, in Riv. dir. proc. 2012, 1002 ss.; Id., ‘Un frivolo amor proprio’. Precognizione e imparzialità del giudice civile, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, Milano 2005, 19 ss.).

[3] La dottrina, sostanzialmente unanime, condivide questo ordine di idee; cfr. A. Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, in Riv. dir. proc. 2023, 681, il quale, preliminarmente, suggerisce che tale lacuna debba essere colmata attraverso l’adozione di criteri tabellari che impediscano la partecipazione al collegio decidente al magistrato che ha formulato la proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.; B. Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, in Foro it. 2023, V, 23; Id., Dei giudici monocratici in cassazione, in questa Rivista 20 gennaio 2023; Id., L’art. 380-bis c.p.c. sotto la lente delle sezioni unite, in questa Rivista 3 ottobre 2023; Id., Una novità assoluta per il giudizio di legittimità: il giudice monocratico nel procedimento “accelerato” (art. 380 bis c.p.c.), in Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, Napoli 2023, 261 ss.; C. Besso, Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (I parte) – le modifiche al giudizio di cassazione, in Giur. it. 2023, 474; F. Santagada, Commento all’art. 380 bis, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. Tiscini, Pisa 2023, 582 ss.; R. Tiscini, Procedimento in cassazione per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e terzietà del giudicante. La questione alle Sezioni Unite, in questa Rivista 2 ottobre 2023; R. Vaccarella, Note sull’art. 380-bis c.p.c., in questa Rivista 3 ottobre 2023; G. De Cesare, Il nuovo procedimento accelerato per la decisione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamenti infondati e l’astuzia del legislatore, in ildirittoprocessualecivile.it 2023, 584 ss.

[4] A. Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 681, ricollega la ricusabilità di tale soggetto alla previsione di cui all’art. 51, n. 4), c.p.c., nella parte in cui impone l’obbligo di astensione al magistrato che abbia conosciuto della causa «in altro grado del processo». R. Vaccarella, Note sull’art. 380-bis, cit., 3, invece ritiene che la ricusabilità dovrebbe al fatto che l’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c. abbia interesse nella causa ai sensi dell’art. 51, n. 1), c.p.c., nonché dal fatto che la fase successiva alla comunicazione della proposta sia da considerarsi «funzionalmente un’impugnazione», con conseguente applicabilità della prima norma citata.

[5] F. De Stefano, La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura, in giustiziainsieme.it 11 gennaio 2023, afferma: «Neppure la nuova proposta costituirà un’anticipazione della decisione, ma resterà la semplice opinione del proponente, sicché non osterà ad una piena e legittima partecipazione di quest’ultimo al collegio chiamato a decidere sul ricorso in esito all’istanza di decisione formulata dal ricorrente (…)». L’autore, in sostanza, è portato a ritenere che il sistema di cui all’art. 380-bis c.p.c. non sarebbe di molto mutato rispetto a quello vigente ante riforma. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti riconosciuto che «(…) non ricorre l’obbligo di astensione di cui all’art. 51, n. 4, c.p.c., in capo al giudice relatore autore della proposta di cui al primo comma della citata disposizione, in quanto detta proposta non riveste carattere decisorio, essendo destinata a fungere da prima interlocuzione fra il relatore e il presidente del collegio, senza che risulti in alcun modo menomata la possibilità per il collegio, all’esito del contraddittorio scritto con le parti e della discussione in camera di consiglio, di confermarla o modificarla», Cass., sez. VI, 16 marzo 2019, n. 7541; similmente, cfr. Cass., sez. VI, 5 febbraio 2020, n. 2720.

[6] A. Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 677, ha cura di evidenziare che la legge delega imponeva che nella proposta di definizione contenesse «sintetica indicazione delle ragioni dell’inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata», dizione assente nel testo entrato in vigore. Non pare, però, che da tale omissione discenda la possibilità di rendere un provvedimento privo di motivazione. La parte destinataria della proposta dovrà avere gli elementi per poter valutare la convenienza tra la prosecuzione del giudizio e l’estinzione dello stesso. Inoltre, è ragionevole ritenere che la proposta debba esser posta in essere nella forma dell’ordinanza, cui ordinariamente si accompagna un dovere di sintetica motivazione.

[7] Quanto alla necessità di conferimento di nuova procura speciale, B. Capponi, Dei giudici monocratici in cassazione, cit., 2, nt. 10, evidenzia che la stessa dovrà avere forma notarile, atteso che la norma non precisa su quale atto potrà essere apposta, stimolando, dunque, l’interrogativo sul potere di autentica del difensore che intenda autenticare la sottoscrizione della procura apposta sull’istanza, materialmente congiunta alla stessa o congiunta con mezzi informatici, non essendo tale atto uno di quelli elencati dall’art. 83, comma 3°, c.p.c.

[8] B. Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, cit., 23; Id., Dei giudici monocratici in cassazione, cit., 1.

[9] Invero, la norma non sembra introdurre avere alcuna utilità, atteso che alla rinuncia che determina l’estinzione del processo non corrisponde (e non può corrispondere), come riconosciuto anche da giurisprudenza unanime (Cass. 5 dicembre 2023, n.34025; Cass. 26 agosto 2022, n. 25387; Cass. 18 luglio 2018, n. 19071; Cass. 12 novembre 2015, n. 23175) l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, atteso che, da una parte, non vi è nessun accertamento delle fattispecie che legittimerebbero la condanna al pagamento di tale importo e, dall’altra, la norma, avendo una natura lato sensu sanzionatoria, non viene ritenuta suscettibile di interpretazione estensiva. In questo senso, cfr. anche C. Besso, Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (I parte) – le modifiche al giudizio di cassazione, in Giur. it. 2023, 478.

[10] Secondo R. Tiscini, Procedimento in cassazione per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e terzietà del giudicante. La questione alle Sezioni Unite, cit., 4, «(…) la scelta legislativa di dirottare il giudizio (dopo la richiesta di decisione ad opera del ricorrente) verso la modalità camerale piuttosto che la pubblica udienza aggrava ulteriormente la situazione e induce a valutare il profilo dell’incostituzionalità anche (e più in generale) in relazione al diritto di difesa e alla garanzia del contraddittorio (art.24 e 111 cost.)». Tuttavia, al riguardo – salvo voler riconoscere un ulteriore profilo di contrasto potenziale con la Costituzione per mancato rispetto, in sintesi, del contraddittorio tra giudice e parti – appare ragionevole ritenere che dette memorie (pur snaturando la funzione a cui fisiologicamente dovrebbero assolvere) possano contenere tutte le argomentazioni ritenute serventi a sconfessare l’inammissibilità, l’improcedibilità ovvero la manifesta infondatezza del ricorso, per come prospettate nella proposta di definizione accelerata: le stesse, nel caso di specie, dovrebbero assumere una funzione analoga a quella delle memorie previste ai sensi dell’art. 101, comma 2°, ultima parte, c.p.c.

[11] Invero, il tenore normativo dell’art. 380-bis, comma 3°, c.p.c. sembra voler codificare un’ipotesi legale tipica di abuso del processo, imponendo al collegio di applicare la relativa sanzione, senza che sia rimessa alcuna discrezionalità quanto alla valutazione in ordine alla sussistenza in concreto della responsabilità aggravata. Tale interpretazione è stata accolta da alcune recentissime pronunce di legittimità (Cass, sez. un., 27 settembre 2023, n. 27433; Cass. 22 settembre 2023, n. 27195; Cass. 4 ottobre 2023, n. 27947), che hanno concretamente specificato che a) la sanzione di cui all’art. 96, comma 3°, c.p.c. può essere comminata solamente in favore della parte costituita; b) la sanzione di cui all’art. 96, comma 4°, c.p.c., in quanto a vantaggio della comunità, trova applicazione a prescindere dalla costituzione in giudizio della parte risultata vittoriosa; c) l’applicazione di tali norme prescinde dall’accertamento della responsabilità in concreto. Tuttavia, autorevole dottrina (F. P. Luiso, Il nuovo processo civile. Commentario breve agli articoli riformati del codice di procedura civile, Milano 2023, 218 ss.) sottolinea che la disposizione potrebbe essere interpretata anche nel senso di ritenere che la Corte debba valutare la ricorrenza in concreto dei presupposti che, di volta in volta, potrebbero legittimare la condanna al pagamento delle somme di cui all’art. 96, commi 3° e 4°, c.p.c., Una soluzione ancora differente viene suggerita, condivisibilmente, da S. Rusciano, La decisione conforme alla proposta definitoria ex art. 380 bis, comma terzo, c.p.c.: una forma codificata di abuso del processo o una mera presunzione?, in questa Rivista 9 gennaio 2024, 7. Secondo l’autrice si dovrebbe ritenere che «(…) la Corte non deve in automatico condannare la parte ricorrente che non si è accontentata delle proposta definitoria al pagamento della somma a favore della controparte, né è tenuta in ogni caso ad effettuare una valutazione specifica della abusività della sua specifica condotta, bensì il legislatore ha inteso porre una presunzione circa la sussistenza delle condizioni richieste per l’applicazione dell’art. 96 citato»,  presunzione tuttavia superabile laddove le specificità del caso concreto rendano irragionevole e iniqua l’applicazione delle sanzioni. In generale, sulle sanzioni pecuniarie collegate all’infondatezza dell’impugnazione, cfr. A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli 2018, 313 ss.

[12] Oltre all’autore citato alla nota successiva, similmente si esprime anche R. Vaccarella, Note sull’art. 380-bis c.p.c., cit.

[13] B. Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, cit., 23; Id., Dei giudici monocratici in cassazione, cit., 3; Id., L’art. 380-bis c.p.c. sotto la lente delle sezioni unite, cit., 3; Id., Una novità assoluta per il giudizio di legittimità: il giudice monocratico nel procedimento “accelerato” (art. 380 bis c.p.c.), cit., 261 ss.

[14] B. Capponi, Dei giudici monocratici in cassazione, cit., 4.

[15] A. Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 681. R. Vaccarella, Note sull’art. 380-bis c.p.c., cit., 3, suggerisce un ulteriore profilo di ricusabilità atteso che l’estensore della proposta ex art. 380-bis c.p.c. «ha ‘interesse nella causa’ ex art. 51, n. 1, c.p.c., perché l’interesse sussiste ogni volta che il giudice propugni una soluzione per ragioni ulteriori e diverse da quella consistente nell’imparziale applicazione della legge: l’apparato di effetti che automaticamente conseguono alla proposta, e che hanno nella proposta la loro causa ». Ad opinione di chi scrive, sembrano potersi estendere anche a questa conclusione le argomentazioni articolate nel testo.

[16] S. Satta, voce Astensione e ricusazione del giudice, in Enc. dir., III, Milano 1958, 947; contra L. Dittrich, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice, Padova 1991, passim.

[17] L Dittrich, ult. op. cit., 194 ss.; nonché Id., La precognizione del giudice e le incompatibilità nel processo civile, in Riv. dir. proc. 2002, 1163 ss.; concorde altresì A. Tedoldi, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna 2015, 177 ss.; cfr., ma solo per un obiter dictum, Cass., sez. I, 27 dicembre 1996, n. 11505.

[18] A. Tedoldi, ult. op. cit., 179.

[19] L. Dittrich, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, cit., 197 s., il quale comunque ritiene ricusabile il giudice istruttore «che in prima udienza esprima il proprio convincimento sull’esito della causa, senza aver ancora valutato le prove prodotte dalle parti (…)». Al contrario, ad opinione di chi scrive, non appaiono condivisibili i rilievi di A. Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 681, nt. 32, volti a sostenere la ricusabilità dell’estensore della proposta. L’autore, invero, è portato ad affermare che la formulazione di una proposta transattiva o conciliativa da parte del magistrato che dovrà poi decidere la lite «configuri palese motivo di ricusazione», in ragione della «conferma indiretta, ma inequivocabile», che di ciò fornirebbe l’art. 185-bis, comma 1°, ultimo periodo, c.p.c., il quale prevede che «[l]a proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice». Al riguardo, in primo luogo, non sembra che tale disposizione possa essere assunta quale norma recante un principio generale, atteso altresì che, in una situazione analoga, ossia in caso di proposta transattiva o conciliativa avanzata dal giudice del lavoro ai sensi dell’art. 420, comma 1°, c.p.c., non si è sentita l’esigenza di introdurre una previsione simile, senza peraltro che eventuali dubbi di ricusabilità possano ritenersi fondati. In secondo luogo, da tale divieto sembrerebbe al più ricostruibile il principio relativo alla ricusabilità del magistrato che abbia anticipato «indebitamente» il proprio convincimento, essendo dall’art. 185-bis c.p.c., consentita la formulazione della proposta fino a quando ancora non è esaurita l’istruzione, ossia in un momento in cui il giudice non abbia potuto ancora maturare, con pienezza di mezzi e argomenti, il proprio convincimento; similmente A. Tedoldi, Iudex statutor et iudex mediator: proposta conciliativa ex art.185 c.p.c., precognizione e ricusazione del giudice, in Riv. dir. proc. 2015, 983 ss., spec. 996 ss.; Id., Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, cit., 173 ss.

[20] Una delle prime prospettazioni in questo senso si deve a G. Scarselli, Terzietà del giudice e processo civile, in Foro it. 1996, I, 3616 ss., spec. 3636 ss.

[21] Corte Cost. 15 ottobre 1999, n. 387, in Foro it. 1999, I, 3441, con nota di G. Scarselli, La Consulta detta le nuove regole sull’incompatibilità del giudice nel processo civile; e in Corriere giur. 2000, 40 ss., con nota di R. Tiscini, e 56 ss., con commento di C. Consolo, Una benvenuta interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 51, n. 4 (in relazione all’art. 28 st.lav.) ed i suoi limiti per i casi futuri, e Riv. dir. proc. 1999, 1188 ss., con nota di M.C. Giorgetti, L’incompatibilità del giudice civile da precedente provvedimento decisorio.

[22] C. Consolo, ult. op. cit., 59.

[23] B. Cavallone, ‘Un frivolo amor proprio’. Precognizione e imparzialità del giudice civile, cit., 30, il quale aggiunge: «(…) mentre la ratio dei numeri 1, 2, 3 e 5 del primo comma dell’art. 51 è ovviamente il timore che il giudice, nelle ipotesi ivi previste, possa non essere imparziale, cioè, come si è detto, possa decidere anteponendo interessi privati all’interesse obiettivo della giustizia; nel caso di cui si discute si ‘teme’ invece che il giudice, dopo avere deciso la causa imparzialmente (come deve pur presumersi) in un precedente grado di giudizio, la decida di nuovo nello stesso modo; cioè, paradossalmente, si finisce per temere proprio la sua imparzialità!».

[24] Si pensi, ad esempio, all’ordinanza di cui all’art. 186-quater c.p.c., in relazione alla quale peraltro, prima dell’intervenuta modifica della stessa ad opera della l. 28 dicembre 2005, n. 263, la Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51, n. 4), c.p.c. nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione dal pronunciare sentenza per il giudice che abbia già statuito nel merito, pronunciando tale provvedimento «anticipatorio», Corte cost. 31 maggio 2000, n. 168, in Foro it. 2000, I, 2425; e in Giust. civ. 2000, I, 1915, con nota di R. Tiscini, Pronuncia dell’ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. e della sentenza da parte dello stesso giudice: inesistenza dell’obbligo di stensione; e in Corriere giur. 2000, con nota di C. Onniboni, L’ordinanza n. 168/2000 della Corte costituzionale e la compatibilità del giudice istruttore a pronunciare la sentenza.

[25] Corte cost. 7 novembre 1997, n. 326, in Giur. it. 1998, 412, con nota adesiva di C. Consolo, Il giudice civile cautelare non diviene in via generale incompatibile a statuire sul merito secondo la Consulta; e in Giur. cost. 1997, 3321; e in Giust. civ. 1998, I, 20; e in Corriere giur. 1998, 115.

[26] Per un confronto sintetico, ma preciso e funzionale allo scopo, si può certamente rinviare a R. Tiscini, Procedimento in cassazione per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e terzietà del giudicante. La questione alle Sezioni Unite, cit., 5.

[27] V. supra nt. 10.

[28] B. Cavallone, ‘Un frivolo amor proprio’. Precognizione e imparzialità del giudice civile, cit., 45 s.

[29] Sulla caratura interpretativa del principio di ragionevole durata nel processo civile cfr. Cass. 23 giugno 2020, n. 12374.