Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Vecchie riemergenti questioni in tema di inibitoria del titolo giudiziale
Di Bruno Capponi -
App. Milano, Sez. IV, Ord. 24 settembre 2020 – Pres. Nardo – Rel. Mammone – A. s.p.a. – C. s.r.l.
La Corte d’appello, giudice dell’inibitoria ex art. 373 c.p.c., non ha il potere di revocare (o sospendere retroattivamente) l’efficacia esecutiva della sentenza d’appello con conseguente caducazione degli atti esecutivi già compiuti dopo la presentazione dell’istanza; l’accoglimento del ricorso proposto ai sensi dell’art. 373 c.p.c. impedirebbe l’ulteriore corso della procedura esecutiva e dunque l’assegnazione del credito, ma non inciderebbe sugli effetti conservativi e prenotativi conseguenti alla notificazione dell’atto di pignoramento ed alla dichiarazione positiva resa dal terzo pignorato.
Il problema affrontato dalla Corte d’appello di Milano è indubbiamente delicato; e, a mio avviso, a renderlo (o a farlo sembrare) tale, è soprattutto la circostanza[1] che il ricorso per l’inibitoria era stato depositato prima del compimento del pignoramento presso terzi, realizzato dalla parte vittoriosa in appello. In occasione della discussione, l’istante aveva richiesto che l’inibitoria dovesse intendersi “revoca” degli atti esecutivi nel frattempo compiuti; si era prodotta, in tal modo, una situazione processuale che si ha frequentemente modo di osservare nel caso dell’opposizione a precetto, in cui, stante il termine dell’art. 482 c.p.c., spesso il giudice si trova a esaminare l’istanza a pignoramento già compiuto (al punto che, nella prima applicazione dell’art. 615, comma 1, riformato dalla Legge n. 80/2005, molti giudici dell’opposizione a precetto ritenevano eliso il loro potere inibitorio dal sopraggiunto pignoramento, rimandando la questione al giudice dell’esecuzione). La domanda che occorre porsi è: se l’inibitoria è espressione del diritto a non subire atti esecutivi “ingiusti”, in che termini viene garantito tale diritto da parte sia del giudice dell’impugnazione, sia del giudice dell’opposizione a precetto? Spesso di parla di “inibitoria” (soprattutto con riferimento al giudice dell’impugnazione, ma ciò a maggior ragione dovrebbe valere per il giudice dell’opposizione a precetto, che non è dotato di poteri sospensivi dell’esecuzione in atto), ma poi ciò che il più delle volte si ottiene, quando lo si ottiene, è la sospensione degli atti di un’esecuzione che nel frattempo è iniziata.
Sono fermamente convinto[2] – nonostante i diversi, noti orientamenti della Corte di cassazione dei quali questa Rivista ha ampiamente dato conto – che il sistema delle inibitorie e delle sospensioni sia sostanzialmente unitario, e risponde a una logica chiara che vede l’inibitoria intervenire sul titolo (“sospensione dell’efficacia esecutiva”), la sospensione sul processo esecutivo. E mentre il giudice dell’appello è titolare di entrambi i poteri (e, a mio avviso, deve esercitarli entrambi in caso di accoglimento dell’istanza a processo esecutivo già pendente, perché altro è intervenire sul titolo, altro sul processo esecutivo), al giudice dell’opposizione a precetto compete il solo potere di inibitoria così come al giudice dell’esecuzione il solo potere sospensivo.
Per definizione, la sospensione dell’esecuzione presuppone la pendenza del processo esecutivo, e così l’avvenuto compimento di un atto – nell’espropriazione: il pignoramento (art. 491 c.p.c.) – il cui fondamento di legittimità non può essere discusso all’interno dell’esecuzione; è dunque perfettamente comprensibile che gli effetti della sospensione siano quelli descritti nell’art. 626 c.p.c., e tra essi non c’è quello della “revoca” degli atti esecutivi già compiuti. Questa conclusione si salda, del resto, con la previsione dell’art. 283 c.p.c., che pur facendo riferimento tanto alla inibitoria quanto alla sospensione non ricomprende tra i poteri del giudice dell’appello quello della “revoca”, ossia della caducazione di atti esecutivi (tra cui anche l’iscrizione di ipoteca giudiziale) compiuti nella vigenza del titolo esecutivo non sospeso. Mentre è ovvio che sono radicalmente nulli, tamquam non essent, gli eventuali atti esecutivi compiuti allorché l’efficacia del titolo esecutivo fosse già stata sospesa (ex artt. 283 o 615, comma 1, c.p.c.).
Direi quindi che in relazione alla sospensione dell’esecuzione non si pone la questione della “revoca” degli atti esecutivi compiuti, come dimostra lo stesso art. 624 c.p.c. e, in particolare, il meccanismo di sospensione-estinzione del suo terzo comma. La sospensione è sinonimo di arresto dell’esecuzione, che può evolvere in estinzione ma non retroagire verso il compimento degli atti anteriori, in primo luogo il pignoramento.
Il tema, però, per le inibitorie è più complicato.
Infatti, tanto nel caso (di specie) delle inibitorie del giudice dell’impugnazione, quanto nel caso dell’art. 615, comma 1, c.p.c., la presentazione dell’istanza non ha di per sé alcun effetto sospensivo o di semplice dilazione, e dunque il provvedimento di inibitoria potrà intervenire (va anzi riconosciuto che nel caso dell’art. 615, comma 1, normalmente interviene) dopo l’inizio dell’esecuzione, per via di quel creditore particolarmente sollecito[3] – tipologia tutt’altro che rara nella realtà – che, nonostante la presentazione dell’istanza, si affretti a compiere il primo atto dell’esecuzione. Comportamento legittimo perché giustificato dal titolo non sospeso, ma che potrebbe essere fonte di responsabilità a norma dell’art. 96, comma 2, c.p.c. ove si dimostri, in sede di opposizione all’esecuzione, che la “normale prudenza” (suggerita anche dall’obiettiva considerazione delle ragioni poste a fondamento dell’opposizione e dell’istanza) avrebbe consigliato di attendere la pronuncia del giudice, che di norma è tempestiva (e dovrebbe esserlo anche nell’opposizione a precetto, in cui peraltro non esiste quella fase sommaria che è propria delle opposizioni a struttura bifasica, specie se si consideri applicabile l’art. 625 c.p.c. con l’articolazione decreto/ordinanza).
L’inibitoria dell’art. 373 c.p.c. presenta poi propri problemi interpretativi. Mentre l’art. 283, comma 1, c.p.c. giustappone la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata e la sospensione dell’esecuzione avviata[4], l’art. 373 parla di sospensione dell’esecuzione della sentenza (non anche della sua efficacia esecutiva), aggiungendo che quando dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno il giudice può disporre che essa sia sospesa (o che sia prestata congrua cauzione). Molte Corti di appello[5], a mio avviso infondatamente, ne traggono argomento per concludere che la sospensione potrebbe ottenersi soltanto se sia già iniziata l’esecuzione sulla base della sentenza gravata per cassazione. In questo modo, verrebbe sostanzialmente negato il potere di inibitoria. Peraltro, la dottrina prevalente ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 373, del resto corrispondente a quella dell’art. 283 («esecuzione della sentenza impugnata»)[6], consenta sia l’inibitoria, sia il provvedimento sospensivo dell’esecuzione in atto.[7] Altra questione: molti ritengono che l’art. 373 non consenta un esame sommario del fumus dell’impugnazione e la cosa viene spiegata con l’alterità tra il giudice che decide l’impugnazione e quello che decide l’inibitoria[8]; ma sta di fatto che l’art. 373 viene richiamato sia dall’art. 401 c.p.c. in tema di revocazione, sia dall’art. 407 in tema di opposizione di terzo, norme entrambe rubricate «sospensione dell’esecuzione».
In questo frastagliato contesto (nel quale possiamo iscrivere anche l’art. 649 c.p.c., scritto nel 1940 e mai ritoccato, che non distingue tra inibitoria e sospensione), possiamo senz’altro affermare che i più recenti interventi del legislatore mostrano una crescente attenzione per il tema dell’inibitoria, come dimostrano sia la riscrittura dell’art. 283 c.p.c. avvenuta nel 1990 (in coincidenza con la riforma dell’art. 282 c.p.c.), sia la novellazione del comma 1 dell’art. 615, avvenuta nel 2005: tratto comune di questi due interventi è infatti l’aver riconosciuto un autonomo spazio (talora negato in giurisprudenza, e di certo per l’opposizione a precetto) al diritto di non subire un’esecuzione “ingiusta”. Si è trattato però di un riconoscimento insipiente e limitato alla formale declamazione, perché da un lato non si è fatto nulla per rendere effettivo tale diritto, dall’altro lato non si è intervenuto sull’art. 373 – ritoccato più volte ma mai con l’intenzione di riconoscere un autonomo spazio all’inibitoria della sentenza provvisoriamente esecutiva che non fosse quella di primo grado – nonostante la giurisprudenza delle Corti territoriali continui a insistere nei suoi capisaldi: nessun esame nel merito del ricorso per cassazione, la cui cognizione non compete alla Corte d’appello; necessità che l’esecuzione sia almeno minacciata con la notificazione dell’atto di precetto, il che equivale ad escludere, di fatto, l’accesso all’inibitoria intesa come sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata[9], il cui interesse è dato dall’esistenza stessa della sentenza provvisoriamente esecutiva, non anche dalla concreta minaccia di azioni esecutive.
Nel caso in commento, l’istanza ex art. 373 c.p.c. era stata presentata prima dell’inizio dell’esecuzione, e il pignoramento presso terzi (notificazione dell’atto ex art. 543 c.p.c.) le era sopravvenuto. E la Corte individua proprio questa attività come preclusiva dell’accoglimento dell’inibitoria: «l’accoglimento del ricorso proposto ai sensi dell’art. 373 c.p.c. impedirebbe l’ulteriore corso della procedura esecutiva e dunque l’assegnazione del credito, ma non inciderebbe sugli effetti conservativi e prenotativi conseguenti alla notificazione dell’atto di pignoramento ed alla dichiarazione positiva resa dal terzo pignorato»; conclusione senz’altro corretta, non fosse che stride con la “giustizia” e la “parità delle armi” l’idea che il compimento dell’attività esecutiva – vale a dire proprio ciò che si voleva impedire a mezzo dell’inibitoria – finisce per mettere fuori gioco l’istanza: come se essa venisse, in sostanza, decisa dalla controparte la quale, compiendo l’atto esecutivo (come ha certamente diritto di fare, finché l’efficacia del titolo non sia sospesa – salvo poi risponderne ex art. 96 c.p.c.), fa automaticamente venir meno il presupposto per l’accoglimento dell’inibitoria. Nel che c’è qualcosa di paradossale: prima dell’inizio dell’esecuzione – secondo quanto ritenuto da molta giurisprudenza – l’istanza ex art. 373 c.p.c. non sarebbe proponibile perché l’esecuzione ancora non c’è; dopo il suo inizio, essa, se intesa in termini di “revoca” degli atti esecutivi compiuti, sarebbe automaticamente da rigettarsi perché l’inizio stesso dell’esecuzione fa venir meno l’interesse a ottenere il provvedimento favorevole. È un corto circuito che ricorda molto da vicino l’interpretazione dell’art. 615, comma 1, che, prima della novellazione del suo primo comma nel 2005, si era consolidata in combinato disposto con l’art. 624 c.p.c., il quale chiaramente presuppone l’avvenuto inizio dell’esecuzione. Qui il discorso è destinato ad articolarsi: possiamo pensare che, accanto alle figure dell’inibitoria (certamente più sfocata) e della sospensione dell’esecuzione, ne esiste una terza, che integra e completa le prime due, volta a far venir meno gli atti esecutivi compiuti in forza di un titolo giudiziale impugnabile (“revoca”)?
La conclusione della Corte d’appello di Milano riesce accettabile soltanto ove si sia disposti a prendere atto che, nel caso di specie, era la stessa richiesta a base dell’inibitoria a non trovare cittadinanza nel novero dei poteri disponibili dal giudice d’appello: se la parte avesse fatto capo alla sospensione dell’esecuzione in atto, la Corte avrebbe potuto pronunciarsi sul merito dell’istanza; ma, avendo quella insistito per la “revoca” e cioè per il travolgimento degli atti esecutivi compiuti dopo la presentazione dell’istanza, è stata la stessa reazione della controparte (compimento del pignoramento) ad aver chiuso ogni discorso ponendo le basi per il rigetto. Il meccanismo impressiona, ma si tratta di una specie di trompe-l’oeil: il risultato non sarebbe stato diverso se, presentata l’istanza dopo il compimento del pignoramento, fosse stata richiesta la caducazione dell’atto esecutivo già compiuto. Si dirà che le due situazioni non sono corrispondenti, e probabilmente è vero: ma è la legge a non considerare la stessa presentazione dell’istanza di inibitoria una preclusione al compimento dell’atto esecutivo, e anche in questo il legislatore del 2005 ha evidenziato tutti i suoi limiti[10] perché, nel novellare il comma 1 dell’art. 615 c.p.c., non s’è posto il problema di rendere davvero effettivo il diritto a non subire atti esecutivi “ingiusti”. L’interpretazione dell’art. 283 e poi dell’art. 373 (che irradia un fascio di interpretazioni in ambiti processuali diversi) risulta del tutto conseguente, in un contesto interpretativo che tende a far prevalere la sospensione sull’inibitoria così come a giustificare il primo atto dell’esecuzione perché comunque compiuto da chi è in possesso del titolo esecutivo. Se vogliamo, la timidezza nel riconoscere il diritto all’inibitoria fa da pendant al diritto, solennemente quanto genericamente riconosciuto dall’art. 282 c.p.c. nel testo modificato nel 1990, di compiere atti esecutivi già in conseguenza della sentenza di primo grado.
È quindi un problema di contenuto e di limiti della tutela, perché la sospensione della sentenza o del processo esecutivo e tantomeno la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo potranno incidere, a ritroso, sugli atti esecutivi già compiuti, stando almeno alla lettera delle norme che stiamo esaminando; e stando al rilievo per cui, a proposito dell’inibitoria, di “revoca” (nel senso qui accolto) quelle stesse norme non hanno mai parlato.[11]
Rileva il primo annotatore dell’ordinanza[12] l’esistenza di un’opinione, senz’altro minoritaria, che dubita della bontà della soluzione, perché «il sistema scaturente dal combinato disposto degli artt. 282 e 283 sarebbe di dubbia razionalità, e forse anche di costituzionalità, qualora il soccombente in primo grado dovesse continuare a subire gli effetti pregiudizievoli degli atti esecutivi compiuti nonostante il giudice dell’impugnazione abbia avuto modo di delibare l’ingiustizia della sentenza»[13]; considerazione cui ha fatto eco la Corte di cassazione, che in una sentenza-trattato del 2013[14] ha argomentato: «è vero che, a seguito della novella di cui alla Legge n. 353 del 1990 dall’ambito dell’art. 283 è scomparso ogni riferimento all’ipotesi della revoca della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, ma non sembra che a tale scomparsa possa attribuirsi il significato di escludere che il giudice d’appello, potendo intervenire sull’esecutività, ormai ex lege della sentenza di primo grado, non possa e non debba farlo in modo tale da assicurare parità delle armi fra chi ha ottenuto la sentenza di primo grado ed è abilitato all’esecuzione e chi dovrebbe subirla. Tale parità sarebbe negata, con indubbio problema di costituzionalità, ove non si ritenesse che il potere di sospensione dell’esecutività nell’art. 283 c.p.c. significhi potere di intervento del giudice d’appello non solo prima che l’esecuzione sia avvenuta, ma anche quando essa sia avvenuta e si sia esaurita, con possibilità di rimuoverne gli effetti, oppure, se essa sia in corso e non si sia compiuta con la possibilità di rimuovere gli effetti verificatisi. Ritenere che se l’esecuzione è compiuta il potere di sospensione dell’esecutività non possa esercitarsi per così dire con effetto retroattivo e, allo stesso modo, che, se l’esecuzione è in corso, non possa esercitarsi con effetto parimenti retroattivo di quella parte dell’attività esecutiva già compiuta, non sembra una soluzione rispettosa dell’art. 111 Cost., comma 2, in punto di parità delle armi, perché se è vero che l’immediata esecutività della sentenza di primo grado si basa su una già espletata cognizione piena, tuttavia, essa è pur sempre espressione di una tutela lato sensu provvisoria ed anticipata e, dunque, se si consente che tale tutela sia ridiscutibile davanti al giudice dell’appello, che può scrutinare le doglianze proposte con l’appello, la discussione deve poter implicare che gli effetti dell’immediata esecutività siano disponibili dal potere decisionale del giudice d’appello nella loro integralità. D’altro canto, dipendendo la circostanza dell’esaurimento dell’esecuzione o la sua avvenuta parziale realizzazione da mere circostanze di fatto, non è possibile che esse individuino il potere del giudice di cui all’art. 283 c.p.c.».
Tuttavia queste opinioni, rispettabilissime anche (e forse soprattutto) nella prospettiva de jure condendo, si scontrano con testi legislativi chiaramente refrattari a integrazioni interpretative. Anzi, ove dovessimo porci alla ricerca di indici a sostegno della soluzione prospettata, incontreremmo da un lato la regola per cui la caducazione di atti dipendenti è sempre coordinata a pronunce di merito (riforma o cassazione: art. 336, comma 2, c.p.c.), dall’altro lato la regola di conservazione dell’attività esecutiva compiuta in caso di successione o trasformazione oggettiva del titolo esecutivo (art. 653, comma 2, c.p.c.), sino all’importante principio di “oggettivizzazione”[15] che consente di salvaguardare, nell’interesse degli intervenuti muniti di titolo, gli atti compiuti dal procedente il cui titolo sia venuto meno in corso d’esecuzione (successione o trasformazione soggettiva). Escluderei una qualche rilevanza, in materia, del principio di perpetuatio (art. 5 c.p.c.) che pone la legge vigente e lo stato di fatto esistente al momento della litispendenza in rapporto con la giurisdizione e la competenza, ma non afferma certo che tali elementi restino, nel corso del giudizio, immutabili anche ai fini del merito. È piuttosto pacifico, in contrario, che addirittura in sede di giudizio di rinvio possono avere rilevanza i fatti sopravvenuti, successivi al momento in cui avrebbero potuto essere allegati nelle fasi di merito; lo jus superveniens con efficacia retroattiva; la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma cui rimanda il principio di diritto; il contrasto con norme di rango costituzionale, che legittima il giudice di rinvio a sollevare la questione incidentale; il contrasto col diritto comunitario o eurounitario, con possibilità di sollevare la questione pregiudiziale; anche il giudicato esterno, sopravvenuto al ricorso o alla sentenza di cassazione che ha disposto il rinvio, può far venir meno o modificare il vincolo al principio di diritto[16].
È vero, dunque, che nel nostro sistema la tutela inibitoria avverso la sentenza, di primo grado come d’appello, è limitata e imprecisa; è grave che in giurisprudenza si dubiti della sua stessa esistenza in relazione alle impugnazioni per cassazione, revocazione e opposizione di terzo (a proposito della quale va notato che l’art. 407 c.p.c. rinvia all’art. 373, sebbene oggetto dell’impugnazione possa ben essere una sentenza di primo grado), cui viene agganciata anche l’impugnazione del lodo rituale; mentre, in relazione all’appello e all’opposizione a precetto, la parte che presenta l’istanza (contestualmente all’impugnazione o all’opposizione) non ha nessuna garanzia che questa sarà decisa nella identica situazione di fatto e di diritto, come dimostra egregiamente il caso da cui abbiamo preso le mosse. Anzi, in modo piuttosto paradossale, la presentazione dell’istanza potrebbe addirittura sollecitare il compimento dell’atto esecutivo, perché si ha la garanzia che i suoi effetti non potranno essere intaccati da un successivo provvedimento inibitorio. Eppure, la ratio degli interventi sugli artt. 283 e 615, comma 1, intendeva appunto esaltare un particolare aspetto “preventivo” della tutela a fronte di chi minaccia l’azione esecutiva (ovvero è in condizioni di minacciarla), perché subire il pignoramento e tenerlo in vita per l’intera durata dei giudizi di merito (di impugnazione o di opposizione) equivale, di fatto, a negare il diritto a non subire l’esecuzione “ingiusta”. I dibattiti sul comma 1 dell’art. 615 si sono concentrati sulla reclamabilità trascurando l’effettività del provvedimento inibitorio: e ciò che è sembrata (ai più ingenui) una vittoria del “garantismo”[17] ha nascosto i termini effettivi di una tutela, che a ben vedere tanto garantista, con chi è destinato a subire gli atti esecutivi, non è affatto. Credo invero che, dal punto di vista del soggetto passivo, meglio sarebbe una tutela in unico grado però concepita in modo da evitare il compimento dell’atto esecutivo prima di una decisione sull’inibitoria, che una tutela articolata sul doppio grado (e preferiamo tacere sulla portata della sentenza della sez. III, n. 26285/2019, che stimiamo cadrà nel dimenticatoio delle cose inutili) che gioca sul corpo martoriato di chi l’esecuzione l’ha già subita, e cerca soltanto di evitare il provvedimento liquidativo.
Per garantire appieno la tutela inibitoria contro la sentenza provvisoriamente esecutiva (sia essa di primo grado, sia essa d’appello) sembrano percorribili due strade: o attribuire alla presentazione dell’istanza (che nel caso dell’appello, abbiamo detto, è contestuale alla proposizione dell’impugnazione principale o incidentale, mentre nel caso della cassazione è senz’altro successiva alla proposizione del ricorso ma non risulta soggetta ad alcun termine decadenziale[18]) un effetto sospensivo automatico, che potrà essere rimosso dal giudice dell’inibitoria col provvedimento di rigetto; ovvero attribuire al giudice dell’inibitoria il potere di “revoca” degli atti esecutivi compiuti sulla base di una sentenza la cui efficacia esecutiva venga poi sospesa, ma in tal caso andrebbe chiarito che un provvedimento di inibitoria vera e propria può derivare anche dall’applicazione dell’art. 373 (o 649, o norme corrispondenti, quali, ad es., l’art. 830, ultimo comma, c.p.c., che parla di «efficacia del lodo»), e non soltanto dell’art. 283.
La prima soluzione è senz’altro da preferire, sebbene l’impedimento dell’esecuzione possa tradursi in un incentivo alla proposizione dell’impugnazione; ma, del resto, la stessa riforma dell’art. 282 c.p.c. venne presentata, nel 1990, come un disincentivo alla proposizione degli appelli infondati, e abbiamo poi visto com’è andata a finire.
[1] Rilevata anche dal primo annotatore: Comparato, Il potere giudiziale di revoca dell’efficacia esecutiva della sentenza ex art. 373 c.p.c., in Giur.it., 2021, 91 ss.
[2] V., riassuntivamente, il Manuale di diritto dell’esecuzione civile, 6 ed., Torino, 2020, 489 ss.
[3] Oriani, La sospensione dell’esecuzione (sul combinato disposto degli artt. 615 e 624 c.p.c.), in Riv. esec. forz., 2006, 109 ss.
[4] Si rammenta che nella stesura originaria l’art. 283 parlava soltanto di sospensione dell’esecuzione iniziata. La Legge 26 novembre 1990, n. 353, modificata dalla Legge 4 dicembre 1992, n. 477, introdusse il testo seguente: «Il giudice d’appello su istanza di parte, proposta con l’impugnazione principale o con quella incidentale, quando ricorrono gravi motivi, sospende in tutto o in parte l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata». La norma è stata successivamente modificata, da ultimo con la Legge 12 novembre 2011, n. 183, ma non è stato più rivisto il riferimento alla inibitoria, da un lato, e alla sospensione dell’esecuzione dall’altro lato, quest’ultima chiamata “esecuzione della sentenza impugnata” a differenza di quanto fa l’art. 624, comma 1, c.p.c., che così individua il potere del giudice dell’esecuzione: “sospende, su istanza di parte, il processo con cauzione o senza”.
[5] Cfr. Impagnatiello, La provvisoria esecuzione e l’inibitoria del processo civile, I, Milano, 2008, 370.
[6] Occorre riconoscere che l’art. 373 non è un esempio di chiarezza, perché parlando di “sospensione” non chiarisce se ci si riferisce alla sentenza (con la possibilità di una inibitoria vera e propria) ovvero a quella esecuzione dalla quale potrebbe derivare “grave e irreparabile danno”, e cioè al processo esecutivo vero e proprio.
[8] V., ad es., Vullo, Considerazioni in tema di irreparabilità del danno ai fini della sospensione dell’esecuzione della sentenza d’appello, in Giur. It., 1996, I 2, 242 ss.
[9] Anzi, sovente si afferma che «in tema di inibitoria, la sospensione dell’esecuzione del lodo risponde ai parametri di cui all’art. 373 c.p.c. piuttosto che a quelli indicati dall’art. 283 c.p.c.; conseguentemente, la pronuncia sull’istanza di sospensione è collegata ad una valutazione circa la sussistenza di un danno grave ed irreparabile che deriva all’istante dall’esecuzione del lodo per cui, nell’ambito di tale giudizio, non può essere operata nessuna delibazione sommaria sulla fondatezza o meno dell’impugnazione»: App. Roma, Ord. 14 agosto 2000, in Riv. Trim. Appalti, 2001, 155.
[10] Cfr. Saletti, I controlli sui provvedimenti in materia di sospensione dell’esecuzione forzata, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, Torino, 2014, 853 ss.
[11] L’art. 283, nell’originaria stesura, prevedeva, al comma 2, che al giudice d’appello «si può chiedere che revochi la concessione della provvisoria esecuzione e sospenda l’esecuzione iniziata», ponendo il dubbio se la revoca potesse produrre effetti diversi dalla sospensione con salvezza degli atti già compiuti. Ma, dopo la riforma del 1990, la questione è andata in soffitta. V. in argomento Consolo (- Luiso – Sassani), La riforma del processo civile. Commentario, Milano, 1991, 194 ss.
[12] Comparato, Il potere giudiziale di revoca, cit.
[13] Così Vaccarella (-Capponi-Cecchella), Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, 283-284.
[14] Sez. III, Sent. 8 febbraio 2013, n. 3074. Su di essa v., ad es., la critica di Olivieri, La sospensione del titolo esecutivo e la sospensione esterna e interna della procedura esecutiva, in Il processo esecutivo, cit., 791 ss.
[15] Affermato dalla nota Sez. Unite, Sent. 7 gennaio 2014, n. 61.
[16] Ci permettiamo di rinviare a Un piccolo dubbio sul rinvio civile, in www.giustiziainsieme.it dal 4 febbraio 2021.
[17] Con molti limiti: v. il dibattito in questa Rivista, 2021, 94 ss.
[18] Invece, il testo originario dell’art. 373 c.p.c., che attribuiva la decisione dell’inibitoria alla Corte di cassazione, prevedeva termini decadenziali: «L’istanza di sospensione deve essere proposta nel ricorso contro la sentenza o con apposito ricorso, contenente, in caso di sentenza parziale, la dichiarazione di cui all’articolo 361 se non è stata già fatta (comma 2). L’apposito ricorso deve essere proposto nelle forme ordinarie entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza (comma 3)».